Gattuso ha un campione che si farà, Osimhen. E uno che s’è fatto già: Mertens. Gli altri hanno Ronaldo, Immobile, Lukaku. E si vede

C’è stato un momento di Napoli-Sassuolo, si era all’incirca al settantesimo, in cui dalla panchina non s’è alzato chi doveva. Si erano già alzati un po’ tutti, in realtà. Alcuni ancora ballonzolavano a bordo campo scaldandosi fino a cuocere, altri avevano già dato il cambio ai compagni di sventura: Mario Rui, Elmas, Petagna. Ma lui no. Lui era altrove, in altri stadi, in altri luoghi e in altri laghi. Il campione. L’Ibra. Il Ronaldo. Il Lukaku. L’Immobile.
Gattuso continuava a gesticolare, proiettando arti come fossero tentacoli, avvertendo l’impossibilità di una magia che risolvesse quell’imbarazzante situazione in cui la sua squadra s’era cacciata: perdere in casa, dal Sassuolo. Come se “casa” avesse ancora un significato e il Sassuolo non fosse poi un concetto in aggiornamento, non più aggettivazione della subalternità – ve lo ricordate quando ce ne facevamo beffe? Lo Scansuolo, lo chiamavamo – capace di farsi grande a dispetto delle indisponibilità: Berardi, Caputo, Djuricic.
Gattuso non si voltava mai. Aveva alle spalle la percezione intima dell’inadeguatezza di una rosa completa, profonda, talentuosa, in parte inespressa. Ma inadeguata – che i suscettibili ci perdonino – almeno per quel dettaglio che spesso risolve i problemi: il Napoli non ha Mr. Wolf che bussa alla porta altrui o la sfonda perché così si fa punto e basta. Quello nato per fare quella roba lì: segnare il punto oltre che il gol, il principio di superiorità sugli avversari, ma meglio ancora sui compagni. “Uomo della provvidenza” storicamente suona malissimo, ma insomma ci siamo capiti: la punta aspirazionale, che funziona in presenza e si fa notare in assenza. Le altre “big” ce l’hanno. Il Napoli non ancora, o non più.
Proprio nella giornata storta del Napoli più incoerente di sempre – distrugge l’Atalanta, poi perde dall’AZ, poi soffre col Benevento, poi batte la Real Sociedad, poi perde dal Sassuolo – la Serie A fa ostentazione di mezzi fuori range.
Il Milan fatica a Udine, almeno fino a quando Ibrahimovic non manda in gol Kessie prima di riciclare una palla persa in rovesciata vincente (ma lui è capace di ribadirsi più efficace di Re Mida, pure se gli chiedi che ore sono).
La Juve si sta giocando la sua ormai solita sfida-salvezza con lo Spezia, quando entra Cristiano Ronaldo (col tampone “bullshit” finalmente negativo) e tac: tre gol in 18 minuti.
La Lazio perde dal Torino fino a quando Inzaghi – che pure ha la rosa più corta d’Europa – si volta e butta dentro Immobile: rigore procurato e segnato, prima che Caicedo segni il 4-3 al 98’.
E per converso l’Inter, che invece Lukaku ce l’ha in infermeria, fa i conti con la sua assenza: pesca un 2-2 col Parma di pura sofferenza, sottolineando per sottrazione quanto senta la mancanza del suo bomber.
Il Napoli ha un campione che si farà, Osimhen. E uno che s’è fatto già: Mertens. Non ce li ha adesso che servono, per i più disparati motivi. E non ci starebbe nulla di male, se questi non fossero tempi bulimici in cui il processo per direttissima è annesso alla sconfitta. Un’arringa perpetua, dissimulando stupore ad ogni passo falso, con i colpevoli a geometria variabile: una volta è Gattuso, un’altra è lo spettro di Ancelotti che aleggia come un munaciello, un’altra i giocatori presenti passati e futuri. E il mercato, vostro onore. Che punta ai “prospetti”, senza vergognarsi di recitare in tv una parola tanto orribile.
Il campione, anche veterano come Ibra (ripescato quasi per caso dalla pensione americana), è tale perché svolge una funzione quasi sociale: si sobbarca pesi e mezze misure, rattoppa, incide. Spacca e unisce. Come ha scritto Raniero Virgilio a proposito del “più campione” di tutti, costa una vita intera e tragica, l’unica che produca una gioia gigantesca e gratuita per gli altri. L’allenatore manco lo guarda, il più delle volte. Se sta in campo è indipendente, ha libertà d’azione. Se sta in panchina viene richiamato alla bisogna, senza troppi indugi. Gattuso, ne avesse avuto uno, non si sarebbe nemmeno voltato. Ne avrebbe invocato il nome, sinonimo di sicurezza. Ronaldo. Immobile. Ibrahimovic. Lukaku.
Non Osimhen, per ora. Non Mertens, non ora.