Per i giornali in Nazionale ha “maradoneggiato” fino a ricordare Iniesta, Baggio e Rivera. Ma è una bolla che fa male a lui per primo

Rivera. Roberto Baggio. Antognoni. Totti. Iniesta. Fino al “Maradoneggiante” che la Gazzetta dello Sport ha coniugato in forma verbale per evitare eccessi di blasfemia. È quello l’unico paragone che non si fa, per evidente senso delle proporzioni, per il resto via libera. Sono giorni questi in cui ad avvicinarsi al nome di Lorenzo Insigne senza un termine di paragone abbondante, esagerato, un “Lorenzinho” qualunque, si fa la figura dei disfattisti invidiosi. Sacchi, che per Gazzetta della Sport redige le pagelle della Nazionale, l’ha etichettato “fenomeno” due volte, ripetendosi cacofonico a distanza di pochi giorni: 8 dopo la Polonia, 9 dopo la Bosnia.
Altrove – ovunque – la pausa del campionato e il Covid incombente hanno proiettato tutta la retorica positiva sulle prestazioni ispirate del numero 10 dell’Italia, ad un certo punto promosso sul campo capitano. A farne rassegna stampa ne vien fuori una panna montata con pochi precedenti, considerato il contesto: due partite di una selezione allargata (e poi ristrettasi dai casi di Covid va-e-vieni) contro due avversarie modeste.
“Bellezza” è la parola chiave, ripetuta fino ad esaurimento scorte: lo stop di palla “ricamato”, l’assist “pennellato”, la “delizia” di certe giocate, il sollucchero generale per la fantasia ritrovata dal “genio” azzurro. È tutto un darsi di gomito, davanti alle telecronache su RaiUno, mentre assistiamo orgogliosi al “tiraggiro” che si stampa sul palo. Come i bambini che fanno “ooooh” i napoletani – pure quelli che non sopportano “il frattese” – gonfiano il petto, perché il marchio della classe è registrato qua, al San Paolo. Mentre gli altri ci rinfacciano di non apprezzarlo abbastanza, ecco che noi ce ne riappropriamo: tiè, gioca nel Napoli, è napoletano, è nostro il miglior giocatore italiano dell’Italia più bella degli ultimi – disastrati – anni. E intanto sui giornali paginate di artifici simil-letterari per cantare l’epica di gesta “dimenticate”, con tutto l’immaginario che Napoli mette a disposizione: abbiamo letto di un assist “da Museo di Capodimonte”, per dire.
La Gazzetta dello Sport ha scritto che “la nobile stirpe arrivata fino ad Antognoni, Baggio, Totti, ha trovato un nuovo, degno rampollo, dopo anni di vuoto”.
No, non saremo certo noi qui a metterci di traverso mentre l’onda monta verso Napoli-Milan, e Insigne la cavalca come mai forse in carriera. Sarebbe anticlimatico, e ingiusto. Insigne gioca libero, inventa come gli piace, fa quel che per una carriera intera ha suggerito potesse fare. Ha 29 anni, non 19. Ci ha sedotti e abbandonati così tante volte che fa specie dover leggere ogni volta un “finalmente”: “finalmente è sbocciato”, “finalmente è un campione”. Viste le premesse, dovremmo abituarci a considerare “normale” questo livello di prestazioni, a godercele senza il frastuono della sorpresa, il limaccio dei facili elogi. La “consacrazione”, per due partite mezzostagionali della nazionale, anche no, ecco.
Ma non è Insigne – per capirci – che mettiamo in discussione. È l’abuso che se ne fa nel bene e nel male. Ora siamo nel bene, benissimo. Questa critica che lo segue patologicamente nelle sue altalene, facendone una vittima quando gioca svogliato e un supereroe Marvel quando gira bene, dovrebbe dare fastidio a lui per primo. Quando ammette in diretta tv “non ho mai avuto un buon rapporto con la piazza napoletana”, parla esattamente di questo: subisce da sempre critiche ed elogi nell’esagerazione delle aspettative della sua città. Di chi lo ama per principio, e di chi lo malsopporta per atteggiamenti e discontinuità.
Come ha scritto oggi Angelo Carotenuto sul Corriere dello Sport “Napoli è città che si riconosce più dai fischi che dagli applausi”, e “quello di Insigne è invece un talento accigliato”, che i fischi li soffre troppo. Quando poi gioca con un’altra maglia è come se s’alleggerisse, trova tifosi non suoi, rastrella titoli su titoli per uno stop a seguire fatto ad arte. Alimenta la superbia del campione che a 29 anni si fa scoprire talento come se ne avesse 19. E per cosa poi? Per due partite di poca importanza giocate in nazionale?
Sa benissimo, lui, che una volta tornato a Napoli toccherà fare i conti coi suoi demoni: il Napoli, i napoletani, un big match come quello contro il Milan. La sosta, con tutte quelle pagine di sport da riempire di cose belle – in un momento in cui tutto fuori è angosciante – è clemente per definizione, è accogliente, predisposta all’entusiasmo. Insigne sarà diventato Insigne se volgerà la sua superbia alla realtà. Ha l’età e il talento per fare carta straccia dei titoloni. E diventare, magari, lui il termine di paragone altrui. Quando scriveranno di un altro numero 10 “ha un talento che ricorda Insigne”.