“I lose my baby”: il grido di dolore di una madre che ha perso il figlio su un battello. In altri tempi quella madre sarebbe diventata un’immagine simbolo
La pandemia con le sue statistiche, i suoi grafici, la sua terribile estensione planetaria ha totalmente egemonizzato la comunicazione. In fondo la cosa è del tutto naturale. Il rischio lambisce ciascuno di noi. Ogni giorno un contagiato più vicino del più vicino di ieri. Troppo preoccupati per le conseguenze su ciascuno di noi. Per la salute. Per i rapporti sociali recisi di netto. Per la situazione economica. Cosicché ognuno non ha più occhi né orecchie che per le notizie relative al contagio da COVID 19. I riflessi di ciò si avvertono sulla qualità e l’intensità dei rapporti umani. È certamente molto più che un rischio la trasformazione con la quale oggi ognuno guarda all’altro. È positivo? Ha la moglie positiva? Insomma siamo diventati, da esseri umani , potenziali cacciatori di untori.
E la comunicazione fa la sua parte. Influenza ed è influenzata. Dà al grande pubblico quello che il grande pubblico vuole. Le statistiche, i grafici, percentuali, medie. Persino valori di parametri impalpabili e incontrollabili, difficili da comprendere come l’Rt hanno il privilegio dell’attenzione spasmodica. E ognuno ormai ne parla con la stessa disinvoltura con la quale parla di 4-2-3-1 o di 4-3-3 nel calcio. Ognuno parla di curva logistica o esponenziale e magari manco lontanamente sa che cosa sia una funzione. In fondo sempre numeri sono. I notiziari sparano notizie allarmanti. Episodi agghiaccianti. Episodi commoventi. Ma tutto all’interno della vicenda pandemia. Per carità tutto comprensibile. Il ciclope comunicazione fa la sua parte. Ed al telefono o sul posto di lavoro, con mascherina e distanziamento, non si discute di altro.
Mi sembra chiaro che una conseguenza precisa di questa atmosfera sia la tendenza di ognuno a ripiegarsi su se stesso, costretto ad un egoismo inevitabile, sordo a qualunque altro problema. Quasi, per esempio, come se nel terzo mondo la fame e la mortalità altissima dei bambini, non per coronavirus, fosse un problema da seppellire nella sentina della parva materia. Cosi come a stento si ascolta qualche notizia sulla strage degli innocenti legata ai barconi di migranti. Si ascolta ma non resta impressa, non desta attenzione una notizia che non riguardi il COVID 19.
In proposito mi ha molto impressionato una immagine. Quella della mamma che su un battellino dove si era rifugiata in mare aperto dopo un naufragio lancia l’urlo agghiacciante “I lose my baby” , “perdo, ho perso il mio bambino”. L’immagine e la voce di quella sventurata mamma avrebbero dovuto restare, sarebbe restata in altro momento, negli occhi e nelle orecchie di tutti. Una scena di una feroce dolcezza che non poteva non commuovere. E magari diventare una icona mondiale più incisiva e suggestiva della foto dei marines che piantano la bandiera americana ad Ivo jima. Ed invece pur avendo la comunicazione dato la notizia, mostrate le immagini e trasmesso l’urlo straziante della mamma, non ha bucato il teleschermo. Non se ne è discusso al telefono, nei posti di lavoro, nei bar. Non lo hanno ripreso i giornali se non talvolta in trentesima pagina. A questo ci ha ridotto la pandemia? A non riuscire a commuoverci di fronte ad un mamma che vede annegare il suo bambino? A vivere nell’indifferenza?
“I lose my baby” da un orecchio ci entra e dall’altra ci esce. Cioè diciamo la verità. Non è una notizia. È naturale in proposito tristemente ricordare quanto Dostoevskij fa dire ad uno dei personaggi de I fratelli Karamazov
Di tutte le altre lacrime dell’umanità, delle quali è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino al centro, non dirò nemmeno una parola… Io riconosco in tutta umiltà che non capisco per nulla perché il mondo sia fatto così. Vuol dire che gli uomini stessi hanno colpa di questo: è stato concesso loro il paradiso, ma essi hanno voluto la libertà e hanno rubato il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero diventati infelici, quindi non c’è tanto da impietosirsi per loro… Ma ci sono i bambini: che cosa dovrò fare con loro? È questa la domanda alla quale non so dare risposta. Per la centesima volta lo ripeto: c’è una miriade di questioni, ma ho preso soltanto l’esempio dei bambini, perché nel loro caso quello che voglio dire risulta inoppugnabilmente chiaro. Ascolta: se tutti devono soffrire che c’entrano qui i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l’armonia con le sofferenze.