Diego era un eroe “popolare”, non c’era intermediazione. Oggi i Messi e gli Ibra sono virtuali, esibiscono pensieri da Instagram
Nella foto filtrata nei toni seppia che ha allegato al suo cordoglio social, Cristiano Ronaldo ha il cappellino da baseball con la visiera extralarge infilato di sbieco come un rapper. E il sorriso del piccolo fan che ha disturbato il suo idolo per rubargli lo scatto che appenderà in cameretta, o che posterà su Instagram alla morte del campione. Il campione è Maradona. Elegante, il collo stretto nella cravatta, proprio con quell’espressione del campione che non si presta, che non si nega. Che sparpaglia pezzettini di campione al mondo, generoso.
E’ un attimo, un click, che separa due mondi e due epoche. Quella della vicinanza, della prossimità, dei miti popolari immersi nella gente, e quella del distacco, dell’alienazione, degli idoli sovranazionali e ipo-emozionali. Maradona e Cristiano Ronaldo. Ieri e oggi.
Il fatto che Maradona sia “ieri” non è accettabile, oggi. Nell’elaborazione del lutto, però, c’è anche la perdita della dimensione umana dei nostri eroi. La percezione carnale che ne avevamo, anche quando per scippargli un autografo toccava restare acquattati per ore, in attesa che spuntassero da un’auto, o che uscissero da una casa “segreta” di cui tutti avevano l’indirizzo.
C’è un pezzo, oggi, di Massimo Gramellini, meravigliosamente anti-retorico, che regala quella sensazione di “vita” vissuta (oggi la chiameremmo live, prima di arrangiarla in formato TikTok) azzeccati a persone che pure ammiravamo come dei. Gramellini ne ha scritto dal punto di vista privilegiato del giornalista che seguiva Maradona quando “seguire” era un verbo di movimento, e non aveva a che fare con lo spolliciamento convulsivo di Twitter. Ma tutti i paroloni roboanti mandati in stampa stanotte traboccano di quella sensazione fisica del ricordo popolare: Maradona, basso com’era, finiva puntualmente soffocato tra mura di tifosi e fotografi. Ognuno se ne tiene un brandello per sé, a mente. Si faceva così, quando l’ostentazione del feticcio non era essa stessa il fine ultimo della caccia ai vip. Erano gli anni 80, fin su i 90. E non c’è bisogno di scavare nel tempo, come fa Carratelli nei suoi racconti di un mondo lontanissimo in cui la conoscenza umana era tale perché non c’erano superuomini, in trattoria, o al bar. Si stava tutti assieme, ognuno nel proprio ruolo, quasi alla pari.
Maradona è un fenomeno popolare per definizione, e non solo per “la miseria del suo volto” che la “povera” gente del mondo – i napoletani ne escono fuori sempre così, fateci caso – riconosceva propria come allo specchio. Lo è perché era riconoscibilmente terreno, non viveva su una torre di traffico dati: s’affacciava ad un balcone, speronava la folla con la Mercedes, sparava dai cancelli quando non era già in grado di gestirla più.
Oggi quelli che dovrebbero essere il suo corrispettivo metaforico – CR7, appunto, ma anche Messi, Ibra, un po’ tutta questa classe di supereroi moderni – sono una nebbia. Scrivono i pensierini su Twitter, mentre ci illudiamo che questa linea diretta non-mediata dai giornali sia un legame. Quando invece è fuffa, non ha peso. Non ha sostanza. Ci scrivono ma si tengono a distanza di sicurezza. E noi, poveri illusi, a premiarli coi cuoricini.
Le immagini di cui traboccano tv e telefonini ogni tanto incorniciano Maradona che si tuffa nel fango come una foca, che esulta tutto zozzo come un bambino felice che imita Peppa Pig. Il Centro Paradiso, sottodimensionato e accogliente, nel quale si imbucavano i ragazzini per vederlo palleggiare senza preoccuparsi di filmarlo per la raccolta like del giorno. Se sfogliate i giornali che nessuno compra più – ma che in giornate così vanno esauriti alle 8 del mattino – leggerete di tutti quei giornalisti sconosciuti a cui Maradona non negava una parola, una stretta di mano, una carineria. Anche Gramellini c’è passato.
Oggi avvicinarsi a Messi o Cristiano Ronaldo è un’utopia, e intervistare il portiere di riserva di un medio club di serie A richiede doti da ambasciatore, talento burocratico, sventagliate d’occhiolini all’addetto stampa. E attese, infinite. E no freddissimi, via mail. Se, accreditato, riesci a fermare Cristiano Ronaldo nella “mixed zone” dopo una finale Champions e fai l’errore di impugnare lo smartphone, verrai atterrato dai gorilla dei diritti tv: puoi parlare, puoi scrivere, non puoi “produrre contenuti audiovisivi”.
Maradona era la spontaneità che non abbiamo più. Era lui, proprio lui. In carne e sudore. Non un social media manager, non il fotografo capace di nascondere la patinatura di certi atteggiamenti posticci. Non un ufficio marketing che “si interfaccia” col team comunicazione prima di fare ciao ciao con la manina da uno schermo.
Non ce ne rendiamo nemmeno conto di quanto sia finito il mondo di Maradona, quello della percezione sensoriale dei nostri sogni. Anche adesso che andiamo a portare un mazzo di fiori al San Paolo, lo facciamo autoriprendendoci, per condividere. Perfettamente assuefatti al livello di intimità che ci concedono i Maradona di oggi.