Cosa è scientificamente accaduto alla corteccia cerebrale del portiere della Nazionale che 35 anni fa giocò una partita contro Maradona
Il cervello di Peter Leslie Shilton è una macchina a stati organica, in nulla differente da quello di ciascuno dei propri simili. La mattina del 25 novembre gli impulsi elettrici nella sua corteccia cerebrale provocarono le consuete valanghe di attività neuronali assimilabili a quelle del panettiere vicino a casa, del lattaio, dell’avvocato penalista e amico di famiglia che abita di fronte.
Il suo telencefalo funziona come quello di ogni essere umano. La memoria, cui tale zona è funzionalmente preposta, conserva nel proprio stato solido le informazioni: milletrecentonovanta, il numero delle sue presenze ufficiali come portiere; dieci, il numero di incontri di fase finale nelle quali la porta da lui custodita è rimasta inviolata.
Quella giornata del 25 novembre, si diceva, le notizie riportarono la fine del calciatore che, il ventidue giugno millenovecentottantasei, gli balzò davanti superandolo iniquamente con un colpo di mano. Le cellule corticali hanno registrato numeri, immagini e suoni, analogamente a quanto il cervello del lettore del presente scritto ha fatto per il numero di telefono, il nome, l’età del lettore stesso.
Si dà il fatto, tuttavia, che, per qualche motivo, gran parte del resto dei propri simili – dotati di analoghi amigdala e ippocampo, a quanto è dato sapere – volle conoscere quel giorno proprio l’opinione di Peter Leslie Shilton, classe millenovecentoquarantanove, intorno a quella morte. Il cervello del portiere della nazionale inglese, tre campionati del mondo con relativo esordio a trentatré anni, riattivò la corteccia cerebrale con un impulso consueto. “Sono rattristato – rispose al telefono ad un certo giornalista – era ancora giovane. È stato il più grande che abbia mai incontrato in vita”. L’encefalo continuava la propria vulcanica attività elettrica, mutando stati e circuiti neurali, come fanno i cervelli del lattaio, del panettiere e dell’avvocato vicino di casa: “Ma non si è mai scusato per aver barato”.
Al cosiddetto giornalista, in ascolto all’altro capo del telefono, tanto bastò a ringraziare e riattaccare. In cosa la coerenza della quotidianità di Peter Leslie Shilton fosse di natura non assimilabile a quella dei propri simili, incluso il giornalista sopra citato, è qui assai difficile dibattere o stabilire. Di sicuro il suo cervello aveva registrato le informazioni corrette, le superfici organiche non presentavano malformazioni, mutazioni o evidenze di insufficienze o affaticamenti. E tutto sommato l’ansia di tanti che avevano in animo di raccogliere i suoi commenti non spostava di un millimetro l’insieme di quelle immagini, di quei numeri e di quella consapevolezza.
Ciò che nessuno riportò, il pomeriggio di quel 25 novembre, era che se il cervello di Peter Leslie Shilton giocava al suo padrone strani scherzi, esso lo faceva seguendo precisi processi in ogni dettaglio assimilabili a quanto la materia cerebrale degli altri esseri umani faceva e fa sui medesimi umani padroni di quella materia. Il cervello del portiere, che nell’ottobre del millenovecentosessantasette segnò direttamente da calcio di rinvio, funzionava in tutto e per tutto come quello degli altri.
Alcuni professori – o esperti, si direbbe oggi – scoprirono, solo in un secondo momento, che nessun essere umano vive al di fuori delle proprie illusioni, anzi l’esistenza consta proprio di tali trucchi che diremmo illusionistici. La mente, di cui consta la coscienza di Peter Leslie Shilton, è giocata dal cervello che orchestra, muove, scarica e genera esperienze alla mente stessa, lasciando a quest’ultima l’impressione, l’illusione di decidere, di muovere, di essere una entità coerente, chiara, completa. Il cervello lascia alla mente l’illusione di dire “Io”. Sempre il cervello, i professori spiegarono, crea la palla e il campo dell’Azteca ogni giorno; ancora il cervello muove la mano di ogni uomo, quella dell’estremo difensore e dell’attaccante estremo, come in uno specchio. I due, dopo il salto, torneranno sulla terra: la mente di uno con l’illusione di aver vinto, la mente dell’altro con l’illusione di aver perso.
Peter Leslie Shilton quel pomeriggio, tuttavia, pianse. Non è ancora chiaro se questa notizia sia importante. Di certo non fu riportata. Fu il suo cervello a stimolare le ghiandole e a preparare i dotti. Fu la mente a sperimentare quel calore resinoso. Fu poi sempre il cervello, in una transizione di stati, a fargli giungere sulla punta delle labbra un “Grazie”. Forse un processo di entanglement. Per quel giorno fu tutto.