Ha portato Napoli al centro del mondo. Il resto d’Italia lo ha visceralmente detestato, Italia 90 ne fu teatro. E i potenti del calcio hanno sempre voluto schiacciarlo
Diego Armando Maradona è morto. A sessant’anni, dopo una vita a dir poco intensa. Vissuta come lui ha voluto. È assurdo oggi discutere cosa sarebbe stato se il suo comportamento fosse stato diverso. Molto semplicemente, non sarebbe stato Maradona.
È morto un leader politico. Che giocava a calcio come un dio. Ma un leader politico. È corretto, lo condividiamo, il paragone con Muhammad Alì. Entrambi hanno fatto politica attraverso lo sport. Simboli di una battaglia in difesa dei deboli. Che fossero neri, poveri, emarginati, vietcong. I due hanno sempre rischiato in proprio. Hanno sfidato il destino, la storia. E hanno vinto. Quando tutto il mondo non aspettava altro che la loro disfatta. A Kinshasa come a Città del Messico.
Maradona, da leader politico, annusava i momenti chiave. In campo e non solo. Attese la sfida con l’odiata Inghilterra per segnare i due gol che ancora oggi hanno marchiato a fuoco la storia del calcio.
Da fermo, ha reso carta straccia qualsiasi discussione sulla personalità, sulla leadership. Ha fatto notizia in ogni modo. In qualsiasi momento. In un letto d’ospedale. In un’auto della polizia. A quattordici anni come a quaranta. Lontano anni luce dagli eroi patinati del calcio attuale. Maradona è stato anche un simbolo e un rappresentante degli anni Ottanta che non sono stati solo quelli dell’edonismo reaganiano.
Maradona ha vinto a Napoli città profondamente distante dallo star system. Diciamo anche periferia del mondo. Dove nessun fuoriclasse sarebbe venuto. Scappava da Barcellona. Il documentario di Kapadia lo mostra perfettamente. Si rese subito conto dov’era arrivato. In una squadra mediocre. In un club modesto. In una città contraddittoria, ricca di soldi e di potere (altrimenti non sarebbe arrivato; senza i soldi del Banco di Napoli e senza il potere del pentapartito, l’operazione non si sarebbe conclusa) ma anche eternamente speranzosa e con l’etichetta di perdente affibbiata dalla storia. Altri sarebbero rapidamente fuggiti. Maradona si caricò tutti sulle spalle e tutti fece crescere: la squadra, il club, la città. Finendo poi imprigionato, questa è una parte della storia che la città non vuole vedere.
Elesse Napoli quartier generale della propria battaglia. Ne divenne il condottiero. Un giorno, D’Alema disse sarcasticamente: “Capo tavola è dove siedo io”. Ecco, per Maradona era effettivamente così. Napoli divenne capitale perché c’era lui. E ancora oggi, ovunque tu vada, una volta rivelate le origini, la risposta è: “Napoli? Maradona!”. Che sia Stoccolma o Johannesburg.
Si calò nella realtà. Gli bastò la prima partita, a Verona, per rendersi conto dell’odio nei confronti suoi e di Napoli. Era così in ogni stadio, soprattutto del Nord. In particolare Verona, Milano, Bergamo. E più il Napoli diventava forte, più cresceva l’avversione. Che non era solo sportiva. Nel 90 a San Siro, prima di Inter-Napoli, i tifosi interisti srotolarono lo striscione “Hitler, con gli ebrei anche i napoletani”. Pochi mesi dopo, al Mondiale, l’inno argentino venne fischiato in ogni stadio d’Italia. Un poco persino a Napoli in quella semifinale Italia-Argentina che decretò la sua fine. A Milano, dopo la sconfitta contro il Camerun, rilasciò una dichiarazione da capo di Stato: “Grazie a me i milanesi hanno smesso di essere razzisti e hanno tifato per gli africani”.
Nella trasmissioni tv delle reti Mediaset c’era un clima di processo continuo. Anche da parte di chi oggi si professa grande estimatore di Maradona e simpatizzante del Napoli. Venne utilizzato persino Cesare Casella un giovane vittima di un lunghissimo rapimento. Fresco di liberazione, fu piazzato in tv a dire che Maradona gli stava antipatico perché non era un modello positivo per i ragazzini.
In modo molto più crudo, la sera della semifinale a Napoli Antonio Matarrese gliela giurò. Così come gliela giurò Blatter. Gli fecero perdere la finale contro la Germania, lo lasciarono in lacrime dopo averlo insultato e defraudato. Dopo qualche mese, venne trovato positivo alla cocaina e diede l’addio all’Italia e a Napoli scappando come un ladro. Da solo. Nella notte. Nel 94, venne prima rimesso in piedi per giocare il Mondiale e dare un senso a Usa 94, e poi gli furono segate le gambe con l’antidoping dopo due partite. Si erano spaventati che potesse vincere. Sia pure con molto ritardo, la battaglia politica con Blatter l’ha vinta. Postuma, possiamo dire. La storia da dato ragione lui. Che definì Blatter un mafioso.
Maradona è stato odiato in un modo che oggi è impossibile rendere. E ha un sapore acre assistere a questa ondata di miele che lo sta avvolgendo. Fisiologica quanto ipocrita. La morte ha questo potere. In cambio dell’addio definitivo, ti si concedono smancerie che quando eri in vita non sono mai state nemmeno pensate. Chissà, è una sorta di sollievo che rende magnanimi.
Ma lui, Diego, oggi commenterebbe tutto questo con un sorriso amaro. Ricordano cosa gli hanno detto quando era in vita.