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Se Pandev avesse saputo di essere Pandev

Ha vinto tutto, ma a Napoli lo ricordano come rincalzo di lusso. A 37 anni è nella storia con la sua Nazionale, ma in silenzio: nemmeno lui s’è mai considerato un campione

Se Pandev avesse saputo di essere Pandev

La prima volta che Pandev ha indossato la maglia 29 del Napoli, ha colpito una traversa. Non una traversa qualsiasi. Una traversa da solo davanti alla porta. Vuota. Era a Cesena, settembre 2011. Ci mise poi la bellezza di due mesi e trequarti per fare gol, però furono due, e tutti e due alla Juve. Nella sera in cui sostituì Cavani infortunato. Queste cose, a Napoli, hanno il peso specifico del piombo se non sei un uomo intimorito dal tuo talento, imbarazzato nel portartelo addosso caracollando attraverso una carriera che altri avrebbero capitalizzato guardando l’infinito e oltre su Instagram. Pandev è invece il tipo di campione capace d’appuntarsi al curriculum il clamoroso gol sbagliato all’Olimpico contro la Roma capolista, ottobre 2013, sullo 0-0. Per i masochisti, dal minuto 2’22”:

Erano tempi, quelli, in cui pareggiare al San Paolo col Sassuolo dopo quattro vittorie e primo posto a punteggio pieno, veniva considerato peccato capitale. Almeno, con Benitez funzionava così.

Pandev l’anno prima aveva vinto la Coppa Italia, col Napoli, battendo un piccolo record: primo giocatore a vincerla per quattro anni di fila. Un anno prima ancora – stiamo riavvitando il tempo fino al 15 marzo 2011 – Pandev segna a due minuti dalla fine di Bayern Monaco-Inter il gol del 3-2 che lancia l’ex squadra di Mourinho ai quarti di Champions. Aveva già in tasca il triplete. Era già, insomma, Pandev. Senza sapere di esserlo.

Oggi che Pandev è di nuovo in prima pagina a 37 anni per aver deciso lo spareggio tra Macedonia del Nord e Georgia che ha regalato alla sua nazionale un posto all’Europeo per la prima volta nella storia, ne celebriamo le lacrime. Mentre i suoi compagni – anche Elmas – lo portano in trionfo come si fa nei film epici, con la colonna sonora giusta, e il rallenty tagliato mentre è in volo, a suggellare il momento più alto nei titoli di coda. Come se avesse tirato la soma per 610 partite senza mai sentirsi vittima della sottovalutazione altrui, e quella Champions, il Mondiale per club, le supercoppe, le Coppe Italia, insomma tutto quel popò di palmares fosse un dettaglio. Un’appendice. Un caso.

Avessimo la possibilità di farlo, gli rinfacceremmo quella sera dell’ottobre 2007, in cui segnò una doppietta al Real Madrid, al Bernabeu, con la maglia della Lazio: un gol su assist di testa di Stendardo, di sinistro al volo, e un secondo ritoccando il pallone un’infinità di volte come piace a lui, e poi zac, dal limite dell’area, di sinistro rasoterra. Aveva 24 anni. E non era ancora un fuoriclasse, perché proprio non considerava l’ipotesi che potesse diventarlo. Fu anche un caso Milik con dieci anni d’anticipo. Lotito lo mise fuori rosa perché di rinnovare non voleva saperne. Mourinho non se lo lasciò sfuggire.

Se sfogli l’album delle foto degli ultimi 20 anni del calcio italiano ed europeo, lui è quello zio di cui non ricordi il nome che spunta negli scatti principali sempre in penombra. Chi è quello dietro a Milito? Te lo ricordi? Sì, mi pare d’averlo visto una volta al posto di Lavezzi, al Napoli. Ma non so dirti di più.

Quando Lavezzi finì a Parigi, Pandev ne prese il posto da titolare di fianco a Cavani nel 3-5-2 di Mazzarri. Ma non era Lavezzi, sua santità. E il triplete, che pure portava in dote, a Napoli subiva la svalutazione geografica: fatto all’Inter, non conta. Resta il ricordo, da queste parti, del Pandev rincalzo di lusso, la prima riserva dei “tre tenori”. Da qualcuno veniva, come da tradizione, anche deriso.

A parte la sosta turca al Galatasaray, Pandev galleggia al Genoa dal 2015. Ha superato indenne il valzer degli allenatori di Preziosi – nove – tenendo sempre un piede in campo. Col ciuffo impennatosi sulla stempiatura, il baricentro rasoterra, lo sprint che non s’è mai perso negli anni. Aveva detto, quando ancora il mondo non conosceva la pandemia, che avrebbe salvato il Genoa e si sarebbe ritirato. Non s’è ritirato. E nel frattempo ha messo la Macedonia nel tabellone degli Europei.

La sommatoria di tutti questi eventi, indossata da un ego diverso, si sarebbe tradotta in blasone, ostentazioni, appeal. Pandev, ancora oggi che piange a Tblisi coi compagni a sostenerlo, ha l’aria di un orfano di Dickens. Un campione mai considerato tale, nemmeno da se stesso. Quando il mondo, qui fuori, è pieno di sedicenti “top player”.

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