Mi ero trasferito a Firenze, andai all’allenamento del Napoli. C’era anche Valcareggi che rimase strabiliato, poi scese a chiedergli un autografo
Siamo stati sommersi da ricordi, aneddoti, immagini, monologhi, gol visti e stravisti ma che continuiamo a guardare e analizzare come se fosse la prima volta. Senza stancarci. Mai.
È il Maradona pubblico. Forse l’unico esistito. Infatti sembra che Diego più volte abbia confidato, rassegnato, che dall’età di 15 anni, quando iniziò a essere Maradona, non ha più avuto una vita privata!
Eppure esiste per ciascuno di noi un Maradona personale. Ognuno si porta dentro un ricordo, un momento particolare di quei fantastici sette anni.
Il mio Maradona ci porta al pomeriggio di martedì 19 gennaio 1988. Ero andato a comprarmi al bar Marisa – un’istituzione per i tifosi di Firenze (la città in cui mi ero trasferito per motivi di studio da 3 anni) – il biglietto per la partita di Coppa Italia fra Fiorentina e Napoli del giorno dopo. Nel bar sentii che il Napoli si stava allenando a Coverciano.
Sarei dovuto tornare in tutta fretta a casa, dove ero impegolato nella scrittura della mia tesi di dottorato, ma naturalmente cambiai programma e pochi minuti dopo ero ai bordi del campo principale del noto centro sportivo. Oggi sarebbe impossibile entrare così indisturbato dove si allena la Nazionale, ancor meno se ad allenarsi ci fosse la squadra campione d’Italia e il calciatore più famoso al mondo.
Invece era tutto lì a due passi da me.
Ero arrivato proprio in tempo per la partitella con cui si chiudeva l’allenamento. Eravamo non più di una ventina di persone a bordo campo. Qualche ragazzino in cerca d’autografi e un po’ di vecchietti. Fra cui uno proprio accanto a me che continuava a ripetere – estasiato – “questo non è uno spettacolo soltanto in partita, ma anche quando si allena”. Faticai a riconoscere in quel volto segnato dalle rughe l’ex CT di Italia ‘70 Ferruccio Valcareggi.
Quando l’allenatore in seconda fischiò la fine, tutti i miei idoli, che soltanto la primavera precedente mi avevano fatto trascorrere una folle settimana di festeggiamenti a Napoli, tornarono negli spogliatoi.
Lui restò in campo, a provare punizioni. Dieci minuti di spettacolo puro. Da qualsiasi posizione calciasse, la palla arrivava sempre lì, nell’angolino dove nessuno l’avrebbe mai potuta parare. Ma ciò che mi colpì di più era la gioia. Non sembrava un professionista. O meglio il migliore in circolazione! Ma un bambino ai giardinetti. Vederlo così, a pochi metri da me esultare per aver fregato per l’ennesima volta il suo portiere faceva quasi tenerezza.
Poi l’allenatore, esattamente come si fa con i propri figli ai giardini, disse: Diego ora basta, dobbiamo rientrare. E lui si avviò verso di noi per tornare negli spogliatoi.
Più si avvicinava e più quel “bambino giocoso” s’illuminava di un’aura inspiegabile.
Diego Armando Maradona il calciatore più forte di tutti i tempi era lì davanti a me. Esisteva davvero. In carne e ossa. Ammantato da un carisma che metteva soggezione. Gli avrei voluto dire una banalità da tifoso: del tipo, grande Diego; vai Diego! Ma non mi uscì niente di bocca. Non certo perché fosse altero e distante. Anzi. Si fermò a fare foto con i ragazzini presenti, con quella disponibilità e gentilezza che tutti in questi giorni gli stanno riconoscendo.
Io, invece, rimasi paralizzato. Era stranissimo vedere materializzato lì davanti a me i miei sogni!
Ma restai ancora più stupito quando compresi come qualcosa del genere la stesse provando anche Valcareggi, che – dopo aver temporeggiato un po’ – gli si avvicinò e, quasi balbettando, gli chiese un autografo. Lui, che aveva avuto nella sua Nazionale Riva, Mazzola, Rivera, che aveva sfidato Pelé, era lì come un qualsiasi nonnetto a farfugliare la più banale fra le scuse: è per i miei nipotini!
In questo repentino passaggio dal bambino che corre felice dietro la palla – l’essenza del gioco – al carisma della leggenda c’è tutto Maradona. La sua straordinaria ambivalenza. Esattamente il fulcro della sua fascinazione. La sublimazione degli opposti, dell’incoerenza e del doppio tipica di tutti noi; continuamente affannati dietro modelli che si contrappongono e ci confondono.
Per questo Maradona incarna più di ogni altro il mito della contemporaneità.