Contro il Torino non c’era un piano partita. Dopo un anno, non è chiaro che allenatore sia. E non è aiutato da una squadra costruita male
Un’analisi tattica, ma anche strutturale
In questo nostro spazio sul Napolista, cerchiamo di raccontare le partite del Napoli con un approccio razionale – per quanto si possa pensare di razionalizzare il calcio, un’impresa non sempre possibile. Questa volta, però, dobbiamo andare necessariamente oltre il singolo evento. Dobbiamo parlare del Napoli in senso assoluto, della – presunta – struttura di squadra affidata a Gattuso. Dobbiamo farlo perché Napoli-Torino non è stata una partita che ha offerto pochi spunti e significati tattici, una condizione che nasce proprio dal fatto che gli azzurri hanno mostrato di non avere nulla di tattico da raccontare. Di non averlo più, almeno in questo momento della stagione. E purtroppo si tratta di una sensazione perenne, o quantomeno resistente da alcune settimane.
Bastano i numeri, per spiegare cosa intendiamo: fino al minuto numero 77, il Napoli ha centrato lo specchio della porta in due sole occasioni; tra l’altro, questi tentativi (facilmente) parati da Sirigu sono arrivati da fuori area. Se una squadra con la qualità del Napoli – ricordiamolo: secondo il sito specializzato Transfermarkt, la rosa di Gattuso è la terza più costosa della Serie A, con un valore complessivo di 603 milioni – mette insieme certi numeri offensivi, si può dire che non abbia un gioco. Che manchi di soluzioni per costruire azioni realmente pericolose.
È stata proprio questa la percezione più potente e più ricorrente provata durante Napoli-Torino: la squadra di Gattuso avrebbe potuto giocare per ore senza creare chance per fare gol. E infatti la (bellissima) rete di Insigne e tutte le altre (mezze) occasioni costruite dagli azzurri sono arrivate nel finale. Quando gli schemi sono saltati del tutto. Ma anche quando la struttura-squadra ha assunto una forma solo un po’ più coerente rispetto a quando è iniziata la partita.
Le scelte di Gattuso
In quest’ultima frase c’è quel poco di tattico che ha detto Napoli-Torino. Se torniamo indietro all’inizio della gara, infatti, le scelte di Gattuso risultano inspiegabili. Tutto parte da una domanda a cui noi non riusciamo a dare una risposta: qual era il piano tattico del Napoli per la gara contro il Torino? Con quali giocate, movimenti, automatismi, la squadra azzurra avrebbe dovuto superare la difesa avversaria?
Ripetiamo: non abbiamo una risposta. Perché non puoi costruire un piano partita fondato sul possesso palla schierando due centrali difensivi, due laterali bassi – di cui uno a piede invertito – e due centrocampisti che non hanno e quindi non garantiscono qualità nella fase di possesso palla; allo stesso modo, non puoi pensare di attaccare sulle fasce con quegli stessi laterali difensivi, che possono anche sovrapporsi ma poi non hanno la sensibilità necessaria per crossare in maniera precisa, e con due esterni offensivi che rientrano sempre verso il centro, perdendo uno o più tempi di gioco.
Un’azione ricorrente di Napoli-Torino: la squadra di Gattuso prova a risalire il campo con il possesso, toccando la palla molte volte e con molti uomini; arriva sulla trequarti, a quel punto la difesa avversaria è già raccolta a protezione degli spazi; gli azzurri non possono fare altro che provare ad aprire il gioco sulle fasce, in questo caso su Insigne; che non crosserà di sinistro in area (anche perché ci sono solo Petagna e Politano, molto defilato, da servire) ma rientrerà sul piede forte; a quel punto il capitano del Napoli tenterà un destro a giro sbilenco, velleitario. Ma il punto è proprio questo: non aveva altre possibilità per creare un’azione potenzialmente pericolosa.
E ancora: non puoi pensare di giocare un calcio verticale se schieri calciatori che non sanno lanciare lungo, se i due laterali offensivi sono sempre quei due giocatori che vengono dentro il campo e non allungano né allargano in ampiezza la squadra, se la tua unica punta attacca la profondità raramente e con i tempi sbagliati – e che quando riesce a farlo, tra l’altro, non viene servito, perché non c’è nessuno in grado di servirlo a dovere.
Il Napoli ha mostrato di non avere un piano partita – non un sistema tattico valido per tutte le gare, ma anche e solo per quella contro il Torino – che andasse oltre le giocate e le intuizioni dei singoli. Inaccettabile a certi livelli. Magari potrebbe essere anche comprensibile in un periodo così difficile, caratterizzato dalle assenze di Osimhen, Mertens, Koulibaly, con Lozano a mezzo servizio. Solo che per giocare in questo modo, cioè puntando (solo) sui singoli, occorre che questi singoli siano molto forti e/o che il pallone e gli uomini in campo si muovano con velocità. Con intensità, anche se in maniera disordinata. E invece al Napoli è mancato anche questo.
Al Torino è bastato pochissimo per bloccare il Napoli: costringerlo a giocare sulle fasce e poi a cercare il servizio in area da posizione defilata. Ovvero, i palloni perfetti da controllare per chi si schiera con tre difensori contro una sola punta di ruolo. Il numero dei cross tentati dagli azzurri è enorme: 26. Ma il vero problema è che la maggior parte di questi cross sono arrivati dalla trequarti, non dal fondo. Spesso, poi, sono partiti dai piedi degli esterni invertiti (Insigne a sinistra e Politano a destra), quindi avevano traiettorie lunghe sul secondo palo oppure estremamente tagliate. Si vede tutto, chiaramente, nella mappa sotto. Ripetiamo: il Napoli ha costruito azioni facilmente controllabili da una difesa schierata bassa e compatta, e pure ben strutturata fisicamente, come quella assemblata da Giampaolo.
I puntini arancioni sono segnati laddove sono partiti i cross tentati dal Napoli. In azzurro, a sinistra, quelli provati dai giocatori del Toro.
Come detto sopra, il Napoli avrebbe dovuto accelerare, alzare il ritmo e la qualità del pensiero, delle giocate. È successo proprio questo, nel finale di partita. Per l’urgenza di ribaltare il risultato, certo. Ma anche grazie a cambi che, ripetiamo, hanno reso più coerente l’assetto della squadra di Gattuso. Cerchiamo di capire come e perché: il pallone ha iniziato a viaggiare (più) velocemente perché sono entrati un terzino in grado di palleggiare in maniera dignitosa (Mário Rui) e un centrocampista molto impreciso nello smistamento (Fábian Ruiz sta vivendo un momento di grande appannamento), ma che quantomeno ha provato a muoversi per ricevere il pallone di diverse zone di campo.E poi Lozano ha dato un minimo di imprevedibilità a destra, nel senso che il suo gioco non si riduce a cercare di rientrare dentro il campo sul piede forte, ma può anche esprimersi in ampiezza.
Infine, Llorente: con lui in campo, crossare ha avuto molto più senso, anche solo per tenere (più) bassi i difensori del Torino. Ma il suo ingresso, i suoi primi minuti in campo in questa stagione, sono un segnale evidente della resa tattica del Napoli: una squadra senza idee e senza nemmeno la forza per riuscire a isolare i suoi migliori giocatori per una giocata individuale e risolutiva. Il gol di Insigne è nato proprio da una giocata del genere, dopo che la squadra di Gattuso è riuscita ad alzare un po’ l’intensità del suo gioco offensivo. Dunque è un gol più tattico di quanto sembri, ma purtroppo è stato anche l’unico evento tattico mostrato dal Napoli in tutta la gara di ieri, o quasi.
In questa azione, il Napoli non fa altro che muovere velocemente il pallone. Mário Rui crossa una prima volta, al minuto 91.31; cinque secondi dopo, Insigne è di nuovo lì a scambiare con Fabián Ruiz, mentre il terzino portoghese offre un altro scarico sull’esterno; Fabián Ruiz, invece, trova Zielinski tra le linee mentre Insigne si è inserito nello spazio di mezzo tra esterno e centrale difensivo; due tocchi di prima (belli, difficili, fatti in velocità) e palla in buca d’angolo.
Le colpe di Gattuso
Nel postpartita, Gattuso ha insistito proprio sulla carenza di energia. Sul fatto che il Napoli mancasse della forza necessaria per esprimersi al massimo. Ovviamente non ha torto, anzi si tratta di una lettura molto intelligente: Gattuso sa benissimo che il Napoli non ha – perché non può avere – un’identità tattica definita, la rosa che gestisce è di buonissima qualità, è profonda e assortita ma ha una composizione ibrida; quindi lui deve lavorare ogni volta su un piano partita differente, che assecondi il contesto interno alla squadra – assenze, stati di forma, condizioni psicologiche – e quello esterno, ovvero le caratteristiche degli avversari.
Quando ci sono molti infortunati, come detto, l’unica soluzione è giocare in maniera intensa, velocizzando il più possibile la trasmissione della palla, anche se disordinata, per mettere i singoli in condizione di incidere. Di essere decisivi. Ecco, con poca energia non è possibile giocare in questo modo. Gattuso, per l’appunto, lo sa. Ma in ogni caso è ingiusto pensare che il Napoli possa giocare solo così. Anche in certi momenti, in certe situazioni. Cioè, al netto delle assenze, il piano partita per Napoli-Torino poteva e doveva essere studiato in maniera più approfondita. Le scelte tattiche e di formazione dell’allenatore avrebbero dovuto essere coerenti con un’intenzione. Con un’idea. Non puoi presentarti a una gara di Serie A restituendo la sensazione di non aver preparato nulla, o quasi di nuovo o di diverso.
Un esempio: se schierare Hysaj e Bakayoko ha (molto) senso quando in attacco c’è Osimhen che allunga la difesa avversaria, e allora il Napoli può – anzi: deve – risalire il campo con pochi tocchi, con passaggi immediati e diretti negli spazi, non sulla figura, le cose cambiano quando al posto del nigeriano ci sono Petagna e/o Mertens. O meglio: le cose dovrebbero cambiare. Il turn over è una politica efficace solo quando è intelligente. Quando risponde a un’esigenza. Contro il Torino, con Insigne e Zielinski – ma anche Politano – che si muovono e vanno trovati tra le linee, sui piedi, forse avrebbe avuto più senso schierare Fabián Ruiz e Mário Rui fin dal primo minuto. Di certo avrebbero quantomeno tentato di fare passaggi più ambiziosi, più ricercati, rispetto a quelli elementari, spesso arretrati, di Hysaj, Demme, Bakayoko.
Le colpe di chi ha costruito il Napoli
Con la rosa (più o meno) al completo, e in una buona condizione psicofisica, il Napoli ha manifestato gli stessi identici problemi tattici. Gli stessi equivoci. Solo che Gattuso, tra campo di allenamento e panchina, ha avuto più strumenti per risolvere le singole gare. Ha avuto diverse alternative tra cui scegliere per venire a capo di avversari rognosi – come successo in occasione di Napoli-Sampdoria, per esempio, quando ha rimontato la partita grazie a dei cambi indovinati. Su queste pagine, del resto, scriviamo da sempre che per quest’anno dobbiamo abituarci a un Napoli che non vince le sfide tattiche, ma questo potrebbe non impedirgli di vincere molte partite.
A giudizio di chi scrive, Gattuso ha delle colpe – ne abbiamo parlato sopra – ma ha anche degli alibi. Le assenze, certo. Ma anche la stessa composizione della rosa del Napoli. Perché non è facile, non può esserlo, lavorare con una squadra assemblata senza avere in mente una linea guida, un’idea tattica di riferimento. Senza tener conto delle caratteristiche dei leader eletti in campo e nello spogliatoio.
Insigne o Osimhen
Facciamo un esempio per far capire cosa intendiamo: se Insigne è stato scelto come elemento cardine del Napoli, allora bisognava costruirgli la squadra intorno. Ovvero, era necessario affiancargli giocatori che sapessero servirlo come e dove piace a lui. Non è un caso che nella carriera di Insigne si siano ribaltati i rapporti di forza, che oggi Lorenzo si esprima bene in Nazionale e meno bene nel Napoli – al netto del gol splendido ma piuttosto casuale segnato ieri. Nell’Italia, ci sono Bonucci, Jorginho, Verratti, Emerson Palmieri, Barella. Ovvero, calciatori che permettono alla Nazionale di giocare il calcio che piace a Insigne. E allora Insigne si esalta.
Acquistando Osimhen e non comprando dei sostituti veri di Albiol e Jorginho, due giocatori cerebrali, che fanno progredire la manovra in un certo modo, il Napoli ha depotenziato Insigne. E forse anche Mertens, che – lo sappiamo, l’abbiamo visto – è molto adatto a giocare come attaccante associativo in una squadra che fa possesso intensivo. Il Napoli, però, ha reiterato nell’errore. Perché ha deciso di cercare di acquistare Osimhen e di metterlo accanto a Insigne, e poi ha pure scelto Mertens e Petagna come alternative. Ovvero, due attaccanti diversi tra loro e diversi da Osimhen. Non c’è coerenza, non c’è logica. Stesso discorso nello slot di laterale destro offensivo: Lozano e Politano sono due elementi molto diversi tra loro, uno allunga la squadra e l’altro viene sempre dentro il campo.
La diversità può essere una ricchezza, però bisogna saperla maneggiare. Gattuso ha dimostrato di poterlo fare, di saperlo fare, ma solo fino a quando ha avuto tutti a disposizione e/o la squadra rispondeva fisicamente alle sue sollecitazioni. Sono arrivate alcune vittorie brillanti, ma poi i limiti dell’allenatore – tutti ne hanno, anche Guardiola, anche Klopp – sono venuti fuori quando le cose si sono fatte difficili. Ora, esattamente ora.
Conclusioni
Il punto è che Gattuso è un allenatore ancora indeciso sulla sua collocazione politica – è un tecnico dogmatico-idealista come Sarri, Klopp, Guardiola, ognuno a modo suo? un pragmatico-elastico come Allegri? un allenatore liquido come Ancelotti? è un tattico emotivo e motivatore come Mourinho o Simeone? E quindi si è fatto trascinare dalle onde fin quando ha potuto, fin quando è andato tutto bene. Solo che adesso è arrivata la risacca, e lui non ha (ancora?) gli strumenti giusti cui affidarsi per poter risolvere i problemi – siano essi una nuova diavoleria tattica alla Guardiola, un’intuizione geniale e non pronosticabile come quelle di Allegri, l’insistenza parossistica su un certo sistema tipica di allenatori come Sarri.
Inoltre, Gattuso è alla guida di una squadra che non lo aiuta a scegliere. Che a sua volta non ha un’identità. Che ha giocatori appartenenti a gruppi culturali, tecnici e persino antropologici diversi. E che, probabilmente, manca anche della personalità e della sensibilità per andare oltre la propria comfort zone. Nel calcio, i risultati migliori – che non vuol dire i grandi trionfi – si concretizzano solo quando c’è una perfetta armonia tra giocatori, allenatori, società, progetto tecnico e tattico. In questo senso, la gestione del caso triangolare tra l’Atalanta, Papu Gómez e Gasperini è un perfetto esempio.
Il Napoli, e poi Gattuso, hanno scelto di non scegliere. Nell’ambiente della squadra azzurra non si sceglie da molti anni, ormai. Ed è così che si pareggia in casa, all’ultimo minuto, con il Torino ultimo in classifica. Si pareggia perché la squadra è stanca e non ha molto altro da offrire. Quando invece la tattica calcistica, ovvero una delle parti fondamentali del lavoro di un allenatore, ovviamente coadiuvato e sostenuto dal club, servirebbe proprio per vincere le partite anche nel momento più difficile. Restando fedeli a sé stessi, cambiando in continuazione. Scegliendo cosa fare, appunto.