Al Corriere: «Andavamo spesso a fare i fuoripista insieme, ma quel mattino ebbi un presentimento. Preferii restare a casa. La trovarono ancora cosciente, mormorò: “Ma si può morire così?”»

Il Corriere della Sera intervista Kristian Ghedina, il più grande discesista italiano della storia con all’attivo 13 vittorie in Coppa del Mondo. Si è ritirato nel 2010.
«La paura l’ho sempre cercata. Da bambino guardavo Tarzan, poi salivo sugli abeti di fronte a casa, alti dieci metri, e mi lasciavo cadere di ramo in ramo. A 14 anni, siccome papà non mi comprava la moto, me la sono costruita saldando pezzi trovati nella discarica, e l’ho collaudata nella pista olimpica del bob: facevo gara con un amico a chi prendeva le curve paraboliche più in alto. Sul bob, quello vero, andavo nei boschi: sono finito contro un albero, e mi sono rotto il naso per la prima volta».
Ha sempre amato il rischio, confessa.
«Amo il rischio. In moto. In macchina. E ovviamente in montagna».
Tanti gli incidenti subiti, eppure non si è mai fermato.
Quando vinse la prima gara di Coppa, a Cortina, chiese al padre una Porsche decappottabile, ma alla fine raggiunsero un compromesso per una Passat. L’anno dopo, Kristian si schiantò in autostrada.
«Non si è mai capito come. Forse scoppiò una gomma, forse un colpo di sonno. Mi ruppi la scatola cranica, uno zigomo, i polsi, la clavicola, la scapola, altre due costole, e il naso per la seconda volta. Gli sci che portavo in macchina mi mozzarono un pezzo d’orecchio».
Finì in coma.
«Prima sembrava che dovessi morire, poi che non potessi più sciare, quindi che non potessi più gareggiare. Provai a rimettermi in bicicletta; caddi subito. L’inverno dopo ero di nuovo in pista».
Ma per tre anni non fu più lui.
«Mi avevano avvisato. Il cervello è come un computer: ha bisogno di tempo per resettarsi, recuperare il senso dell’equilibrio. Così sono tornato a vincere».
Neanche quell’esperienza lo ha reso più prudente. Dopo di allora, si ruppe il menisco, il naso per la terza volta e un piede facendo footing nel bosco.
«L’infortunio peggiore è stato nel 2002 in Argentina. Tento un salto mortale con gli sci, cado male, sento crac: tre vertebre rotte. Quella volta pensai davvero di finire sulla sedia a rotelle. Mi dissi: “Ma quanto sei mona…”. Avevo una fidanzata argentina esigentissima, Fabiana. Feci lo stesso il mio dovere, urlando. Lei si convinse di essere una maga del sesso; ma le mie erano urla di dolore».
E’ stata la madre a trasmettergli il gusto della sfida, racconta.
«Da bambino non dormivo con il buio, volevo sempre la porta aperta. Poi mia mamma Adriana mi ha trasmesso il gusto della sfida. Lei era come me: estroversa, sprezzante del pericolo. Mio padre Angelo invece è un po’ tedesco, duro».
Sua madre fu la prima maestra di sci a Cortina. Morì sciando.
«Andavamo spesso a fare i fuoripista sul monte Cristallo, ma quel mattino dell’aprile 1985 ebbi un presentimento. Preferii restare a casa. Mamma era davanti, con papà che le diceva di andare piano. Incrociò le punte degli sci, precipitò per 600 metri. La trovarono che era ancora cosciente, mormorò: “Ma si può morire così?”. Papà si precipitò a valle per chiamare i soccorsi, ma non volevano mandare l’elicottero. Mori a mezzanotte, sotto i ferri. Oggi il fuoripista porta il suo nome: canalino Adriana».
All’epoca, Kristian aveva 15 anni.
«Mia sorella più grande, Katia, smise di sciare. Era più forte di me, già in nazionale. Ora gestisce il negozio di famiglia: lampadari. Io invece mi sbloccai. Avevo una gara la domenica dopo, la famiglia voleva ritirarmi; io pensai che la mamma avrebbe voluto che partecipassi, e vincessi. Vinsi. Prima andavo piano. Cominciai a correre. Come se avessi assorbito la sua fiducia, la sua forza. Come se lei in qualche modo mi accompagnasse, su ogni pista, in tutta la mia carriera. Papà invece era terrorizzato. Mi amava moltissimo ma non guardava le mie gare in tv, temeva che mi facessi male».
Indica il suo migliore amico, sulla neve, in Peter Rnggaldier
«Dividevamo la stanza, e dormivamo sempre con la finestra aperta: per me una temperatura sopra i 14 gradi è malsana, tropicale. A Wengen ci diedero una camera con terrazzo. La notte ci fu una bufera. Al risveglio avevamo una spanna di neve ai piedi del letto. Runghi portava un orologio che segnava la temperatura: meno 4».
E confessa che per aiutare la tensione della gara ascoltava musica italiana.
«Laura Pausini. A tutto volume. Fino a quando gli altri non mi facevano smettere: “Italiani sempre melodici! Basta!”».
Crede nell’Aldilà? gli viene chiesto. Risponde:
«Tendo a credere a quel che vedo. Ma mi piace pensare che, in tutti questi pericoli, mia mamma mi sia sempre stata vicina. E che sia stata orgogliosa di me».