Al Corriere: «Il nonno mi fece i primi sci con due assi di legno ammorbiditi nell’acqua bollente per curvare le punte. Non c’erano scarpe della mia misura: quando mi toglievo gli sci restavo scalzo»
Sul Corriere della Sera una lunga intervista a Gustavo Thoeni, uno dei più grandi campioni di sci alpino di tutti i tempi, vicino ai settant’anni (li compirà a fine mese). E’ nato a Trafoi, in Alto Adige. «Sono italiano», dice e racconta l’attaccamento all’Alto Adige.
«Io sono profondamente legato alla nostra piccola patria alpina; questo non mi impedisce di essere profondamente legato all’Italia. Anche i siciliani sono orgogliosi della loro meravigliosa isola; ma non sono certo meno italiani per questo».
Sull’essere italiani:
«Essere italiani è una fortuna clamorosa. Non esiste al mondo un Paese così ricco di storia e di bellezza. All’estero lo sanno; e ci invidiano».
Mai avuto paura delle discese, racconta.
«Se hai paura, meglio che cambi sport. E poi alla partenza ero troppo concentrato per sentire emozioni».
Ha imparato a sciare
«più o meno quando ho imparato a camminare. Il nonno mi fece i primi sci con due assi di legno, ammorbiditi nell’acqua bollente per curvare le punte. Ne ho ancora uno. L’altro non si trova più… Non c’erano scarpe della mia misura, erano tutte troppo larghe: quando mi toglievo gli sci restavo scalzo».
La sua prima vittoria fu il trofeo Topolino.
«Sul podio mi diedero una corona d’alloro. Purtroppo non ce l’ho più. Mia zia la usò per cucinare».
Negli anni Settanta, racconta, sciare era diverso.
«Le piste non erano levigate come adesso, non esisteva la neve artificiale: quando nevicava poco, nelle curve spuntava la terra; quando nevicava troppo, si creavano buche tremende… Non c’erano reti, nemmeno sulla Streif; al massimo qualche steccato. Al traguardo si arrivava in mezzo al pubblico».
E sul passo-spinta, una sua invenzione:
«Un semplice accorgimento per girare meglio senza perdere velocità. Gli sci erano molto più lunghi: 2 metri e8quelli per lo speciale; oggi sono un metro e 65. Allora ognuno aveva un suo stile. Adesso sono bravissimi, ma tutti uguali».
Su Alberto Tomba.
«Davo una mano al capo dello staff, che era Pietrogiovanna. Vidi Tomba saltare tre volte in una manche; ma mi piacque molto. Tino mi disse: “Lascia stare; è uno di Bologna, un figlio di papà”. Invece era un campione. Conservo una lettera di Alberto, in cui scrive che ognuno ha un po’ cambiato l’altro; io introverso, lui esplosivo… Non è vero che non avesse voglia di allenarsi. Non era mattiniero; e d’estate devi essere sul ghiacciaio alle 7, perché alle 9 la neve è già molle. Ma con gli sci ai piedi si impegnava moltissimo».