Mentre il mondo si barcamena tra panico, cure e morti, il calcio ribadisce la sua alienazione: “O le città garantiscono il pubblico allo stadio o giocheremo altrove”. Ceferin organizzi gli Europei a casa sua.
In questi giorni in cui il mondo si volta indietro, rivedendosi innocente un anno fa con la gente chiusa in casa a panificare, rimbomba tipo eco una dichiarazione che rilasciò lo scorso maggio il Presidente dell’Uefa Aleksander Ceferin al Guardian. Diceva così:
«le persone che conosciamo probabilmente moriranno un giorno, ma dobbiamo preoccuparcene oggi? Io non la penso così».
Ceferin non la pensava così all’epoca, e non ha cambiato idea oggi, mentre ci barcameniamo tra contagio, lockdown e vaccini. Il calcio, l’Uefa, Ceferin, non sono mutati. Non esistono varianti di questa visione monodirezionale dell’esistenza. Appena ieri Ceferin è tornato a parlare dell’organizzazione dell’Europeo (che lo scorso anno saltò perché la gente non aveva il buon gusto di morire contenta di potersi godere una partita in tv). In questi termini:
«l’unica certezza che possiamo dare è che l’opzione di giocare qualsiasi partita di EURO 2020 in uno stadio vuoto è fuori discussione. Ogni città dovrà garantire la presenza di tifosi durante le partite. Lo scenario ideale è giocare il torneo nelle 12 sedi originali, ma se ciò non sarà possibile andremo avanti in 10 o 11 Paesi nel caso in cui una sede non dovesse soddisfare le condizioni richieste».
L’Uefa detta le condizioni alla pandemia. Perché se l’umanità s’è fatta abbindolare dal virus – rammollita! – il calcio giammai arretrerà. I milioni di morti? I confini chiusi? L’economia a ramengo? Macché, il mondo “soddisfi le condizioni richieste”. Un milione di euro in banconote di piccolo taglio e un elicottero sul tetto. Non si negozia, con l’Uefa.
Torniamo all’intervista di un anno fa, quella del Guardian. L’Uefa aveva segnato il punto di non ritorno della sua gestione negazionista con Liverpool-Atletico Madrid, disputata tranquillamente con 60.000 persone stipate allo stadio. Ceferin disse, testualmente:
«A me non piace questa visione apocalittica secondo cui dobbiamo aspettare la seconda e la terza ondata o anche una quinta ondata del contagio… Il calcio non è cambiato dopo la seconda guerra mondiale o la prima guerra mondiale e non cambierà nemmeno a causa di un virus. Non prendo sonno per i milioni che perderemo. La gente ha detto molte volte che il mondo non sarà più lo stesso dopo… Perché non pensare che saremo più intelligenti?».
Un anno dopo abbiamo la risposta quanto meno alla sua ultima domanda. Preoccupa semmai il distacco dalla realtà di un organo sovranazionale che galleggia al di sopra di concetti persino basici: la mortalità umana, le emergenze sanitarie, il collasso di intere società, non ultimo il senso dell’opportunità e del ridicolo.
Il calcio, a ben guardare, è sopravvissuto quasi senza accusare il colpo. Giusto il minimo sindacale. E così continua a muoversi tra le tragedie umane, come un caterpillar alieno. Inscalfibile.
In un momento in cui l’Europa cerca di resistere al panico, il capo dell’Uefa sente il dovere di precisare che le città “ospitanti” dovranno garantire per forza il pubblico allo stadio. La situazione epidemiologica non è affar suo. Se gli Stati sovrani – perché di questo parliamo – non rispettano “le condizioni”, l’Uefa porterà il suo giocattolo altrove. Fa così anche adesso, con le partite della Champions League in campo neutro: il circo itinerante va dove c’è uno spiazzo polveroso da occupare, possibilmente senza troppi rompicoglioni intorno. L’Ungheria di Orban è perfetta, ma anche l’Italia delle zone rosse si presta volentieri, al netto delle durezze che invece impone ai suoi cittadini.
Il calcio è una tribù, che si autoregola. Non è degradabile. E’ impermeabile alla realtà, alle malattie, alla diplomazia internazionale. Ha la pretesa di esserlo, e la scostumatezza di ribadirlo ogni volta che può. Citiamo, a futura memoria:
“Il calcio non è cambiato dopo la seconda guerra mondiale o la prima guerra mondiale e non cambierà nemmeno a causa di un virus”.
Non c’è vaccino, per una roba così.