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Il calcio italiano non corre, in compenso subisce gol su gol costruendo da dietro

Sì, è un problema culturale. Nessuno critica la medievale concezione della preparazione atletica. Ma ci sentiamo contemporanei quando scimmiottiamo la presunta bellezza (e perdiamo)

Il calcio italiano non corre, in compenso subisce gol su gol costruendo da dietro

E meno male che, in una sera d’estate, il Rio Ave decise di suicidarsi calcisticamente facendo rientrare il Milan in Europa League. Altrimenti adesso avremmo avuto la sola Roma in una competizione europea. Fino a stasera ne abbiamo due: ci sono, appunto, anche i rossoneri che affronteranno il Manchester United.

In Italia ogni emergenza viene affrontata alla stessa maniera. Fatto (che sia un’episodio di violenza sessuale alla fermata romana di La Storta, o l’omicidio del povero Paparelli, o altro); clamore mediatico; fatua polemica politica e mediatica; decreto legge; dimenticatoio. Almeno fino al successivo episodio eclatante. Gattopardismo in purezza.

Vale così anche per il calcio. Adesso, per 48 ore, fino alla prossima giornata di campionato, si parlerà della crisi del calcio italiano. Fino a un’inutile rete di Cristiano Ronaldo al Benevento, che sarà celebrata come quella di Rivera all’Azteca in Italia-Germania 4-3. Tranquilli, vale anche per il Napoli. Solo qui da noi, come ha giustamente evidenziato Boniek al Corsport, si accolgono con sollievo le eliminazioni dalle coppe europee. Salvo poi, fare la corsa per accaparrarsi il quarto posto per alleviare le finanze del club che di conseguenza persevererà nel diabolico ingranaggio: qualificarsi per l’Europa e poi abbandonare l’Europa per dedicarsi alla corsa al quarto posto.

Si dimentica così un passaggio fondamentale: soltanto la crisi, soltanto un fallimento, determina un’inversione di tendenza, un ripensamento della strategia aziendale. Tutto è finalizzato a quel quarto posto e non c’è spazio per qualsiasi visione di media durata.

Condividiamo il pensiero di Sacchi: il limite del calcio italiano è culturale. Però, se l’Arrigo ci consente, coinvolgiamo anche altri ambiti oltre a quello strettamente di campo. Non può essere solamente una questione di come si attacca e come ci si difende.

È un problema culturale – ahinoi difficilmente superabile – se si accetta con sollievo l’eliminazione da una squadretta come il Granada. È un problema culturale se arrivare quarti nel proprio girone di Champions viene considerata una mossa astuta (vedi Inter di Conte). Rientra nella dinamica, tutta italiana, di considerarci più furbi degli altri. Ma ce lo raccontiamo in casa nostra. Perché poi gli altri ci battono sonoramente. Sul campo e non solo. Non è una caso che la Serie A sia diventata il cimitero degli elefanti. Elefanti un tempo di lusso – CR7, Ibrahimovic – ma pur sempre elefanti. I campioni del futuro vanno a giocare altrove.

Sono tanti i problemi culturali che avvolgono il nostro calcio nelle spire della loro arretratezza. È un problema culturale la preparazione atletica e la narrazione che se ne fa. In Italia l’“andate a lavorare” è ben più di un coretto da stadio (quando erano aperti): è un concetto radicato nella società. E perfettamente rappresentato dal circuito giornalistico. Nessuno ha la benché minima nozione di fisiologia e da noi impera il principio che i calciatori vanno torchiati affinché rendano di più. È, alla base, un concetto punitivo. Potremmo sfociare nel cattolicesimo, ci fermiamo un attimo prima.

L’atleta non è considerato un fascio di muscoli da trattare con cura affinché questi muscoli offrano il miglior rendimento possibile. No, l’atleta-calciatore è considerato una persona che deve essere sottoposta a punizioni corporali, ad allenamenti massacranti. Perché, al fondo, deve espiare la colpa di guadagnare tanto. Com se fosse colpa sua. Col risultato che i calciatori guadagnano sì tanto, ma probabilmente si divertono molto poco. E sono soffocati da pressioni insostenibili da chi, tutto sommato, è arrivato a fare il professionista perché si divertiva a giocare a calcio.

E nessuno, quasi nessuno, per quel che concerne la vulgata sulla preparazione atletica, ha il coraggio di alzare il ditino e dire: “ragionate come la corazzata Potemkin secondo Fantozzi”. Altrimenti si perde il consenso. Si viene espulsi dal circuito. È il concetto chiave di quella che il filosofo Byung-Chul Han definisce società palliativa: “una società senza verità, un inferno dell’Uguale”. Il risultato è che il canale informativo finisce col produrre un rumore indistinto di sottofondo, in cui tutti ripetono gli stessi concetti peraltro vecchi di oltre vent’anni.

La stessa Atalanta, che in Italia è una sorta di marziano per la preparazione atletica e non solo, è guardata da tanti con sospetto; in più, si avvale anche dell’esperto straniero di fisiologia dello sport: Bangsbo. Nel calcio italiano tutto ciò che è altro, è guardato con diffidenza. Tutto pur di non mettere in discussione il caro vecchio metodo delle flessioni supplementari che rigenerano il cuore e la mente. La conclusione è che le squadre straniere corrono, scattano, quelle italiane no. Forse perché si allenano per dare il massimo in campo, non in allenamento. Eppure rimaniamo noi quelli che hanno capito come si trattano gli atleti: bastone e carota.

C’è poi un altro aspetto in cui, invece, si è completamente sovvertito il quadro narrativo. Ne accenniamo, meriterebbe un discorso molto approfondito. Il calcio italiano si sta snaturando. In realtà si è già snaturato. La cosiddetta scuola italiana è considerata una vergogna. Ed è considerata superata anche e soprattutto dal circuito informativo. Basti pensare al trattamento subito da Massimiliano Allegri. C’è sempre un’onta che accompagna il racconto di una squadra che si difende: piazza il pullman. È una narrazione infastidita, che addita il colpevole con una punta di disprezzo. Non a caso gli allenatori di casa nostra considerati all’avanguardia, giocano tutti allo stesso modo, hanno gli stessi principi. Vengono osannati continuamente, non si capisce per quale motivo. È una forma grottesca di provincialismo, che raggiunge il suo acme nella ormai famigerata costruzione da dietro. Che è costata alla Juve il primo gol in casa del Porto, all’Atalanta il primo gol a Madrid e – con un retropassaggio sbagliato – anche alla Lazio il primo all’Olimpico del Bayern.

Il calcio italiano si è convinto che per stare in società bisogna comportarsi esclusivamente in un certo modo. Non si può nemmeno avere l’intelligenza di discernere quando è il caso di fare un passaggio in più e quando no. Si sta smarrendo il concetto di competizione, sacrificato in nome della presunta bellezza. Fino a quando non vinci. Quando vinci, cambia tutto. Della bellezza, o presunta tale, non frega più a nessuno. Come per la Champions dell’Inter di Mourinho o per i Mondiali del 2006.

È come se l’Italia del calcio avesse smarrito una delle doti che hanno reso gli italiani famosi nel mondo: la capacità di adattamento. Siamo diventati talebani, fondamentalisti, senza avere la struttura culturale né la preparazione per reggere questa posizione. E così non siamo più né carne né pesce. Di italiano-spaghetti abbiamo conservato la mentalità primitiva sulla preparazione atletica e l’abbiamo mescolata con quella che definiamo innovazione calcistica. Il risultato è questo Frankenstein che oggi è il calcio italiano. Preso a sberle dal primo che passa. A momenti persino dal Rio Ave.

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