Si presentò e disse: “Il mio traguardo è liberare il gioco del calcio dalla schiavitù degli avversari”. E ordinò la costruzione della famosa gabbia
Fiorirono in Toscana gli allenatori toscani, a Viareggio Fascetti e Lippi, a Piombino Agroppi e Sonetti, a Pisa Clagluna, a San Miniato Ulivieri, a Massa Orrico. Ne fiorirono quaranta, compresi Riccomini e Viciani.
Orrico aveva una faccia indimenticabile e il sigaro irrinunciabile, un naso grosso, due grandi occhi un po’ lontani tra loro, un taglio di bocca improbabile e una fronte spropositata con un cespuglio di capelli ribelli. Discese dalle Alpi Apuane per dare un senso al gioco del calcio e allenare, autodidatta modello, invaghito dei libri di Charles Bukowski, dei versi di Baudelaire, dei film giapponesi e degli anarchici.
Si presentò e disse: “Il mio traguardo è liberare il gioco del calcio dalla schiavitù degli avversari”. Fece gavetta in Liguria e Versilia e marciò su Milano dopo undici fulminee domeniche a Udine dove provò la vertigine della serie A. Disse: “Ho una fama non usurpata di duro, ma allenando l’Inter un tecnico non può evitare di essere elastico”. Guardato con diffidenza, promise: “Se i ragazzi mi seguiranno, ci faremo quattro risate”. Confidò agli amici: “Nella mia nuova avventura all’Inter mi spaventa solo la nebbia”. E ordinò la costruzione della famosa gabbia. La gabbia di Orrico.
Spiegò ai discepoli: “L’idea mi è venuta dalle partite di calcio in spiaggia. Il pallone, costretto in poco spazio per non disturbare i bagnanti, non poteva assolutamente uscire dal ristretto spazio consentito, una gabbia invisibile. Allora ecco la mia gabbia visibile coi muri alti due metri e una copertura come soffitto. Nella mia gabbia il pallone non si ferma mai, rimesso sempre in gioco dai muri, il ritmo è alto e i giocatori non possono deconcentrarsi. L’ho fatta costruire a Brescia e a Lucca dove sono stato”.
Giunse a Milano in luglio e se ne andò il gennaio successivo dopo sedici gare di campionato afflitte da otto pareggi, il responso che più odiava e che gli valse l’appellativo di Mister X. Aveva raccomandato ai giocatori dell’Inter: “Voi dovete guardare prima la palla, poi lo spazio, quindi il movimento dei compagni e solo alla fine gli avversari”. Se ne andò per la situazione medio-bassa dell’Inter e fu sostituito da Suarez. Gli prese il nervoso e non fumò più il sigaro perché se lo mangiava a morsi. Disse: “Sono stupidamente un allenatore da classifica alta. Mi smonto e mi rendo fragile nelle situazioni medio-basse”. E abbandonò a Milano i ruderi della gabbia che imprigionò i suoi sogni di gloria.
Riprese la strada delle Alpi Apuane e si ritirò nei quattro ettari di bosco e di campagna che erano la sua tana a Volpara, sulle colline liguri sopra Genova. Coi soldi dell’Inter comprò l’Enciclopedia Treccani, una Porsche e aprì a Massa una palestra di arti marziali. “Sono cintura nera di karatè” volle precisare. Girò per i campi di calcio della Toscana. Si lamentò: “Il mestiere di allenatore ha perduto la sua parte idealistica, ora l’allenatore è un tassello dell’azienda”. Aggiunse: “Non sopporto quelli che dicono che nel calcio non c’è più nulla da inventare”. Accantonò la gabbia in una stalla e si staccò dal mondo e dalla politica. “Ero di sinistra. Anche in panchina mi sedevo a sinistra. Ma i tempi nuovi sono desolanti, anche in politica, e nel calcio ancora di più”.
Tornò a fumare il sigaro e rilasciò la più storica delle sue frasi storiche: “Oggi possiamo avere una grande ammirazione per i nostri padri di cinque secoli fa che ci hanno lasciato il Rinascimento. Ma fra cinque secoli che cosa si dirà di noi?”. Aspirò una boccata di fumo e aggiunse: “Mi accusano di essermi imborghesito e di mettere il gel nei capelli. Non mi conoscono, non hanno mai conosciuto Corrado Orrico e hanno parlato della mia gabbia solo per riderne”.
Dal suo eremo di Volpara riprese a guardare il faro dell’Isola del Tino quasi davanti a La Spezia: “Là ho la mia barca”. Volle ricordare: “Ai tempi del magistero di Italo Allodi a Coverciano uscirono Giacomini, Carosi, Marchesi, Bianchi, Ferrari, Galeone, Maifredi, Mondonico. Nelle loro squadre c’è sempre stato molto della mia Carrarese”. La Carrarese stava nel suo cuore perché era la squadra che aveva allenato più di tutte le altre.
Orrico, passati gli 80 anni, va in tv e si diverte a sbeffeggiare il calcio di oggi che, a quanto pare, ha più gabbie della sua famosa gabbia.
(26 – continua)