L’ex calciatore, collezionista d’arte, a Il Secolo XIX: «ho la terza media. La mia passione per l’arte è iniziata quando vidi le ville palladiane. A 20 anni comprai la prima opera d’arte. Capii che la cultura costa e dovevo guadagnare»
Il Secolo XIX intervista Oscar Damiani, ex calciatore, procuratore e oggi collezionista d’arte. Quando giocava era soprannominato “flipper”.
«Fu mister Invernizzi a chiamarmi così, nelle giovanili dell’Inter. Perché scartavo gli avversari passando velocemente la palla da un piede all’altro».
Oggi colleziona opere d’arte. Ha raccontato la sua passione per l’arte in un libro, “L’arte nel pallone”. Racconta come è diventato collezionista.
«Sono nato in una famiglia di operai, emigrati in Svizzera e poi tornati in Italia: ho studiato fino alla terza media, ma dentro di me c’era una sete di cultura, emersa in modo spontaneo. Tutto è iniziato a Vicenza, da ragazzo: ho visto le Ville Palladiane, incantevoli. E ho capito che c’era un mondo fatato tutto da scoprire».
La prima opera che ha comprato, a 20 anni, fu un Sironi del 1932.
«Ce l’ho ancora, si chiama “Interno”, è stato il mio ingresso nell’universo artistico. Costò un mese di stipendio: capii che la cultura costa e dovevo guadagnare. Come tanti colleghi ho speso per le auto, ma per l’arte molto di più. Sì, può essere un investimento, ma io sono stato guidato solo dalla passione per l’arte, contemporanea soprattutto. La mia è un collezione fatta col cuore».
Non solo opere d’arte, ma anche calcistiche.
«Ho pure opere calcistiche, come le scarpe di Laura Malattia, personalizzate con i colori delle squadre in cui ho giocato o il pallone fatto di chewing gum di Maurizio Savini. E non poteva mancare il flipper: l’ha realizzato l’artista Giuseppe Stampone, ma ci si può giocare».
Il calcio è arte, dice.
«Anche una partita di calcio è arte».
E continua:
«Come fai a vedere Messi e a pensare che non lo sia? Ma il più grande artista è stato Maradona. Nell’84 prima di andare nei Cosmos mi allenai nel ritiro del Napoli. Che spettacolo: pazzesco giocare con lui. Mi chiamava “Oca” non gli venivano ancora la R e la S».