Il dibattito isterico sul suo fallimento è paradossale: dopo il Lione, era un supereroe male utilizzato; ora, con Pirlo sovrano, viene dipinto come Luther Blisset

Tutta la lapidazione a mezzo stampa di Ronaldo che in queste ore ha monopolizzato il flusso dei meme social si disarma così: “Ok, ma tu non lo vorresti Ronaldo nella tua squadra?”. E’ uno straw man argument, una questione-fantoccio ad uso retorico un po’ scorretto, ma vale a definire il grado di isteria monodirezionale che governa i commenti dopo il “fallimento” Juve. Poiché disprezziamo per comprare da quando l’uomo ha inventato i luoghi comuni, la risposta è “ovviamente sì, certo che lo vorrei Ronaldo. Ma…”.
Il “ma” è scontato, per cui riassumiamo e passiamo oltre: sì, guadagna tanto forse troppo; sì, era stato ingaggiato per vincere la Champions e la Juve non c’è mai andata così lontana; sì, s’è eclissato proprio quando avrebbe dovuto illuminare la scena. Ed è persino giusto che si accolli la sua porzione di ignominia, come sono tenuti a fare i grandi campioni quando deludono le aspettative altrui.
Il nostro “ma” invece è un altro, ed ha che fare con quel trauma irrisolto che si chiama Sarri. Ad agosto – quello del 2020, non preistoria – la Juventus si trovava più o meno dove langue adesso: su un patibolo. Toccava scontare l’eliminazione agli ottavi contro il Lione, pur con uno Scudetto già archiviato con malcelata sufficienza. L’uomo – Sarri – aveva separato ciò che dio – Ronaldo – doveva unire: la Juve e l’Europa. Una bestemmia. Era questo il vangelo corrente, il nuovo testamento della vergogna, con un capro espiatorio facile, di lì a poco esonerato.
Ronaldo, all’epoca, godeva di passaporto diplomatico: nessuno s’azzardava a rinfacciargli alcunché, pena il riflesso condizionato della lesa maestà. Lo sdegno a scatto fisso, con le arringhe a snocciolare cifre e record. E quegli addominali mostrati in segno della superiorità totale, coi tifosi svaccati dietro le tastiere a rimirarsi la panza ben definita per proiezione illusoria.
Lo stesso Ronaldo che ora viene raccontato come un “fighetta” perché si scansa mentre è in barriera, pochi mesi fa era un supereroe, e, pur in pieno psicodramma bianconero, funzionava solo per contrapposizione: la Juve aveva perso nonostante lui, non per colpa sua. Come fossero entità separate, nella sconfitta.
C’era una sottile differenza: c’era Sarri, e non Pirlo, sulla panchina della Juve. Ovvero un tecnico mai amato, col foglio di via in tasca, e non il giovane Maestro, con la cravatta giusta ed un pedigree meglio spendibile.
Sarri, a parità di plotoni d’esecuzione, aveva appena vinto un campionato, ma era sacrificabile. CR7 no, era ancora un brand venduto in abbinamento con quella cosa lì, che a Torino non alzano da 25 anni. Quest’anno festeggiano il divorzio d’argento. L’ironia filava liscia così:
Comprare #Ronaldo per vincere scudetto è come chiamare cardiochirurgo per tagliare unghie#JuveAjax
— Vujadln Boskov (@VujaBoskov) April 16, 2019
Quella di Ronaldo è la sconfitta di un egoismo. Di un giocatore (ora è caduto il veto, se ne può discutere) che ha prosciugato la Juventus, non solo economicamente. Un campione ingombrante ed esclusivo, che più di tutti non ammette spazio condiviso: ogni anno segna i suoi gol, gonfia le sue statistiche, e la squadra che gli gira attorno ne beneficia per riflesso. Ma tutti quelli che lo dipingono come un “pacco”, oggi – e con tutti, si intende tutti per davvero – dov’erano negli ultimi anni? Anche solo setto-otto mesi fa, quando la critica era ridotta a claque?
I fatti hanno corroso la sua indennità. Il malanimo, quando le cose non girano, prende forma per accumulo. E finisce per bucare anche il senso del ridicolo. Oltre il quale Cristiano Ronaldo, colpevole di una giravolta in barriera, diventa Luther Blissett. Un paradosso.
Il prontuario del voltafaccia ora s’è piantato alla voce Ronaldo, il campione pasciuto in un ego industriale, e ora rottamato per via delle macerie che gli cadono tutt’attorno. Per la prima volta da quando è in Italia Ronaldo è parte d’una squadra. Una squadra perdente che non ammette più distinguo.