Da solo contro ventuno: undici avversari e dieci compagni che non gliela passano come e quando dice lui. Abbiamo avuto tutti uno così in squadra. Alla fine non lo chiamavamo più

Antonio, che era passato ai provini della Primavera del Poggibonsi. E che il lunedì giocava a calcetto con noi poveri mortali sol perché il legamento era saltato al momento sbagliato, all’alba di una carriera da futuro bomber della Nazionale, lasciandolo a tenere i conti dell’azienda di papà, e in campo con noi, satelliti nella sua orbita, convocati ad ammirare una volta a settimana le sue prodezze. Ce l’abbiamo avuti tutti un Antonio, a cui passi il pallone salutandolo col fazzoletto bianco, come le mogli dei soldati che partivano per il fronte. Antonio che perde palla al sesto dribbling bestemmiando contro Marcello colpevole di non essersi smarcato a dovere. Antonio, che segna e non sorride perché un gol, due, tre, cosa vuoi che siano. Ti dà il cinque, sapendo che tu mai più laverai quella mano toccata dal signore. Antonio che chiama il passaggio trentadue volte ad azione, e non sia mai non cedi al ricatto emotivo. Antonio che tira tutte le punizioni, i rigori, i calci d’angolo, le rimesse, perché lui è lo “specialista” (“Quella volta che ne segnai tre in un tempo, e l’allenatore si commosse, te l’ho già raccontata?”). Abbiamo avuto tutti un Antonio in squadra. Ce l’ha pure la Juve, solo che lui si chiama Cristiano. Cristiano Ronaldo.
Che – leggiamo da Wikipedia – ha superato con profitto la fase Primavera del Poggibonsi, e vabbè. Ma che è lo stesso prototipo comportamentale: l’accentratore monomaniacale egoriferito in piena fotta da autocelebrazione compulsiva. Antonio, in pratica, ma miliardario e Pallone d’Oro.
Vaga per la Serie A come un dirigibile senza controllo – sempre altissimo, ci mancherebbe, puntando la stratosfera – estraneo ai fatti della Juventus. No, meglio: soffrendo la sua squadra che s’intestardisce a non vincere quanto a lui spetta per carriera e autocompiacimento. E’ lampante, basta leggere le cronache della vittoria sul Genoa (dalle reazioni del suddetto non si direbbe, ma la Juve il Genoa l’ha battuto, eh). La Gazzetta scrive che “Cristiano se l’è presa con parecchi compagni (da Chiesa e Chiellini), rei di non avergli passato bene la palla, ha baruffato con Perin – dandogli del bugiardo – in occasione di un contatto, poi però ha sbagliato un gol fatto, colpendo il palo a un passo dalla porta. S’è arrabbiato quando Szczesny ha buttato fuori il pallone perché c’era un giocatore del Genoa a terra, continuando a ripetere ai suoi: «Loro sono in dieci, dobbiamo attaccare». Il veleno se l’è portato negli spogliatoi, dove s’è sfogato prendendo a pugni i muri. S’è fatto la doccia ed è scappato via in silenzio”.
Damascelli su Il Giornale, a sua volta lo definisce “un caso umano” con “un atteggiamento indisponente nei confronti dei compagni di squadra”, che si comporta “come un moccioso”.
Niente di nuovo, peraltro. Lo scarto è nell’analisi. La ripetitività di questa ostentata frustrazione (motivata a fasi alterne) ha stancato. Anche i media più compiacenti, che in questi anni ci hanno letto il Vangelo del Cristiano salvatore dell’intero sistema-calcio italiano. La Gazzetta timidamente segnala che ora il suo nervosismo è “poco giustificabile”, e conclude il pezzo ricordando che sebbene lui “non ritenga la Juve alla sua altezza” ha ancora un anno di contratto e un club disposto a pagargli lo stipendio di 30 milioni netti lo deve sempre trovare…
La gestione della partita per Ronaldo è diventata complicata. Da solo contro ventuno: undici avversari e dieci poco servizievoli. I quali, onde evitare la lesa maestà, si guardano bene dal far uscire dallo spogliatoio la difficoltà d’essere in squadra con uno così. E che ad ogni intervista leggono il copione del Ronaldo indiscutibile, che ha vinto Champions, Palloni d’Oro, Nobel per la medicina, e che se non gli togli in tempo il microfono ti raccontano di quella volta che grazie alla sua elevazione soprannaturale ha salvato un gattino da un palazzo in fiamme. A volte gli stessi che ora Ronaldo – si racconta, si dice, certo – sfancula a piacimento fanno la figura dei rapiti dell’Isis, costretti dall’ufficio stampa a recitare l’elogio del campione. La scostumatezza evidente, a richiesta, va giustificata col demone dell’agonismo: è fatto così, e se così non fosse non avrebbe vinto tutto ciò che ha vinto. Quindi ci prendiamo i cazziatoni, e le scenate isteriche, pure se siamo campioni del mondo: zitti sotto, lui si può pure muovere. Come il Savonarola di Benigni e Troisi.
Ma la sensazione è che lo stesso Ronaldo sia ormai stato inghiottito dal buco nero che s’è autoprodotto: vittima del suo stesso personaggio ultra-competitivo. Per il quale il gioco di squadra è una scocciatura, se non serve al suo unico scopo, brillare di luce propria e di quella riflessa. Risultando molesto, quando non del tutto disconnesso dalla realtà, come contro il Genoa. La rappresentazione della sua vita professionale come un’enorme Tana delle tigri ha preso le sembianze di una caricatura anabolizzata. Una deriva che nel frattempo sta consumando quel poco di buono che la Juve di Pirlo raccoglie. Per i feticisti della retorica gladiatoria quel «loro sono in dieci, dobbiamo attaccare» urlato a Szczesny che butta il pallone fuori per fair play, sarà magari l’impronta vincente del campione che sa come si fa. Senza pietà. Ma è anche il sintomo evidente della predatoria ansia da prestazione che lo divora: è il Genoa, stai vincendo, anche meno.
Non vi diciamo niente di nuovo: alla fine Antonio, il lunedì, non lo chiamavamo più. Inventandoci le peggio scuse: “No, stasera non si gioca, s’è rotto il campo, abbiamo tutti judo, l’invasione delle cavallette, ci sentiamo settimana prossima”.