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Il figlio di Nino Manfredi: «Papà non c’era mai, ma a casa ho vissuto la genialità dell’epoca»

Il figlio Luca al Fatto: «Per vederlo, dovevo andare sul set. Mia sorella fuggì con Alan Sorrenti in versione santone che offrì uno spinello a papà»

Il figlio di Nino Manfredi: «Papà non c’era mai, ma a casa ho vissuto la genialità dell’epoca»

Su Il Fatto Quotidiano una lunga intervista a Luca Manfredi. Racconta suo padre, Nino, un padre che descrive sempre assente.

«Da ragazzino non ho avuto un padre, perché non c’era mai: per vederlo dovevo chiedere a mamma di portarmi sul set; lì ho scoperto un mondo magico, carico di fascino, in cui amavo studiare le varie fasi di un film e chiedevo a tutti spiegazioni».

Era l’unico modo per stare con lui.

«Non è mai venuto a prendermi a scuola o a vedermi in una gara sportiva; non ha mai condiviso una parte del suo tempo libero o qualunque altra comune situazione genitoriale. Tre giorni alla settimana dormivo a casa di Vincenzo, il mio migliore amico, e la mattina, prima di andare a scuola, la madre mi prestava mutande e camicia. In sostanza ero stato adottato».

Luca racconta le pochissime uscite insieme ai genitori e il disagio che provava.

«Le poche volte che sono uscito con i miei genitori, magari al cinema, emergeva tutta la mia timidezza, per questo non mi sedevo mai accanto a loro ma dieci file più avanti: temevo l’intervallo con la gente accalcata intorno a papà per un autografo o una stretta di mano. E lui ogni volta, apposta, si alzava in piedi e urlava: “Luchino, che fai laggiù? Vieni qui da papà”; stessa scenetta quando riceveva un premio: dal palco mi salutava e mi invitava a salire accanto a lui. Io scappavo».

Trattava nello stesso modo le sue sorelle. Una di loro fuggì presto da casa, racconta.

«Una sorella è fuggita prestissimo di casa e si è fidanzata con Alan Sorrenti, all’epoca sconosciuto musicista di una piccola band composta da Pino Daniele e Tony Esposito. Conosciuto al baretto di Scauri, paesino tra Campania e Lazio, dove papà aveva acquistato una casa su suggerimento di Alberto Sordi, solo che poi Alberto se n’è andato a Castiglioncello. Un giorno mia sorella decide di presentarlo a papà: all ’epoca non era ancora “il Sorrenti” da figlio delle stelle, ma suonava una musica impegnata, con sonorità indiane, e si vestiva come un santone in sandali. Al primo incontro ha offerto uno spinello a Nino, con papà che ci rimase malissimo».

A casa Manfredi è passato il gotha del cinema.

«Da casa è passato il mondo di quella stagione fantastica: ho visto da Totò a De Sica, da Elio Petri a Germi e Comencini; ho avuto il privilegio di vivere la genialità dell’epoca: mi piazzavo in un angolo dello studio e assistevo alle sedute. Per tre quarti erano basate sul cazzeggio, su racconti, barzellette e insulti, poi si lavorava».

Su Totò:

«Me lo ricordo a Napoli quando giravano Operazione San Gennaro: in quel periodo Nino aveva raccattato per strada un cane randagio che mi aveva attaccato una brutta malattia; il veterinario ci consigliò di portarlo al canile, e siccome Totò ne finanziava uno, l’affidò a lui, che gli diede il nome di “Manfredi”; quando il cane morì, fu proprio Totò a chiamare mio padre: “Ti devo dare una brutta notizia: è morto Manfredi. Ma per fortuna è il cane, perché quello bravo è ancora vivo”».

E parla anche della madre, che ha avuto il merito di salvare Nino dalla depressione.

«È stata lei a salvarlo dalla depressione, a cercare le cure giuste quando parlava di suicidio. Lei gli ha dato stabilità. E papà lo ha sempre riconosciuto: anche quando erano separati in casa, quando lei non ne poteva più delle infinite storie con altre donne e lui viveva nell’attico e lei al pianoterra, per cena scendeva giù, e dopo mangiato si piazzavano sul divano per guardare insieme la televisione. Mano nella mano. Ed è un’immagine che mi porterò per sempre dentro».

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