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Marco D’Amore: «Il napoletano guascone è triste. Napoli è una città scientifica, non solo teatrale»

Al CorSera: «Al liceo io ero quello che parlava forbito, il che mi dava un certo rispetto e curiosità. Per strada di notte ce la cavavamo con gente più grande in un quartiere dove c’era bisogno di abilità per sopravvivere».

Marco D’Amore: «Il napoletano guascone è triste. Napoli è una città scientifica, non solo teatrale»

Il Corriere della Sera intervista Marco D’Amore. Nella serie tv Gomorra interpreta Ciro. Racconta la sua infanzia in Campania.

«Con mio fratello sono cresciuto con chi faceva una vita normale e con chi è andato incontro a una fine disperata. Mi rivedo in C’era una volta in America di Sergio Leone. Ho avuto un’infanzia memorabile, lo dico guardando con tristezza alle nuove generazioni, alle loro utopie commerciali. Per strada di notte ce la cavavamo con gente più grande che ci ha fortificati, in un quartiere dove c’era bisogno di abilità per sopravvivere».

Negli anni ’90 Caserta era il luogo dei Casalesi, dice.

«In centro scendevano orde a colonizzare la città. Al liceo si appostavano per fare la corte alle ragazze, la violenza era all’ordine del giorno. Un piccolo boss come dimostrazione di forza indicò alla sua ragazza una coetanea che ci provava con lui. La ragazza prese un giornale, lo arrotolò come un bastone e picchiò la rivale, non si lamentava, al gruppo diceva di farsi gli affari loro».

E parla di sé:

«Io ero quello che parlava forbito, il che mi dava un certo rispetto e curiosità. Poi ero creativo, facevo ridere. Le bische, le sale gioco, il contrabbando… Il racconto della povertà lo vedevo. Al liceo c’era Roberto Saviano. Lo chiamavano l’indiano, aveva i capelli lisci fin dietro la schiena. Era piuttosto impegnato, mentre per tanti di noi la scuola occupata era il cazzeggio di non andarci. Facemmo l’autogestione più lunga d’Italia».

Su Toni Servillo:

«Mi ha fatto capire il lavoro duro. Mi diceva, non sai fare niente, stai qua e impara. Mi raccontò dei suoi inizi, a Campobasso fu scambiato per suo fratello Peppe, il cantante; gli capitò di recitare davanti a venti persone».

D’Amore ha vissuto anche a Milano:

«Periodo bohémien. Vivevamo in quattro, senza materassi. Dividevamo le sigarette, facevamo le collette per comprare il pane. La fase dei poeti maledetti, un quartiere di extracomunitari, i ragazzi arabi pensavano lo fossi anch’io. Mi dicevano: anche noi fingiamo di essere italiani. E io: Ma sono napoletano!».

E su Napoli:

«Mi rattrista la rappresentazione del napoletano guascone. Napoli è una città scientifica, non semplicemente teatrale in modo quasi dilettantistico. Pochi sanno perché Forcella si chiama così: è una Y, una lettera pitagorica, quello era un quartiere di scienziati e matematici».

 

 

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