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A Torino abbiamo visto il Napoli che abbiamo sempre sperato di vedere

Una squadra elastica che ha rinunciato al possesso palla intensivo con una ricerca più rapida degli spazi in verticale

A Torino abbiamo visto il Napoli che abbiamo sempre sperato di vedere
foto Hermann

Il miglior Napoli possibile

Quella vinta per 2-0 in casa del Torino sarà ricordata come una delle migliori partite del Napoli di Gattuso. Non solo per il risultato e per il dominio espresso contro un avversario piuttosto modesto, dal punto di vista tecnico ed emotivo, ma proprio per la qualità della prestazione tattica. Finalmente, viene da dire, si è vista una squadra in grado di esaltare il (grande) talento dei calciatori in organico, anche attraverso le connessioni e i meccanismi tra loro. Queste connessioni e questi meccanismi, poi, sono stati vari. Non sono apparsi limitati, non sono stati limitati, circoscritti, ma hanno esplorato l’intero spettro a disposizione dell’allenatore. Ed è un discorso che riguarda gli undici calciatori scesi in campo come titolari, ma anche gli uomini subentrati dalla panchina.

A Torino abbiamo visto il Napoli che ci aspettavamo, che sapevamo di poter vedere. Il Napoli che non è potuto essere per via degli infortuni, innanzitutto, ma che proprio nel momento dell’emergenza ha vissuto di paure e freni a mano tirati. Di tattiche al risparmio. Anche in questo Gattuso ha i suoi alibi: la rosa che gli è stata affidata non poteva e non può determinare lo schieramento in campo di una squadra identitaria, con un gioco riconoscibile, con dei riferimenti fissi. Quei riferimenti che, in assenza di (diversi) giocatori chiave, avrebbero potuto tenere alto il rendimento.

Proprio per questo, però, l’allenatore avrebbe dovuto manipolare e maneggiare il suo sistema con più coraggio. Anche perché se alla fine il Napoli dovesse centrare la Champions League, non avrebbe compiuto nessuna impresa. Semplicemente, sarebbe arrivato laddove questa rosa merita di essere, per qualità assoluta e potenziale.

Com’è andata Torino-Napoli

Cos’ha avuto di diverso il Napoli visto a Torino? Innanzitutto, un piano partita offensivo tarato sugli uomini schierati, e sulle richieste del contesto. Rispetto alla (buonissima) partita contro la Lazio, Gattuso ha modificato la formazione titolare inserendo Osimhen al posto di Mertens (scelta deliberata) e Bakayoko al posto di Fabián (scelta imposta dalle cattive condizioni dello spagnolo).

Queste modifiche di formazione hanno determinato un cambiamento del piano tattico: la squadra dal gioco offensivo tendenzialmente rapido e verticale vista contro la Lazio ha mantenuto lo stesso approccio, per favorire Osimhen. Anzi, la presenza del centravanti nigeriano, insieme a quella di Demme al posto di Fabián, ha finito per accentuare e radicalizzare questo approccio: a Torino, i lanci lunghi dell’ex capitano del Lipsia (14 tentati, 7 riusciti) sono stati serviti più nello spazio che sulla figura, così da assecondare la tendenza di Osimhen ad attaccare lo spazio e la minor sensibilità tecnica di Demme rispetto a Fabián Ruiz. E non solo Demme ha utilizzato lo strumento del lancio lungo, del passaggio verticale in avanti mentre gli uomini offensivi attaccavano lo spazio.

I 42 passaggi lunghi tentati dai giocatori di movimento del Napoli lungo tutto l’arco della gara di Torino

Tutto, però, è iniziato prima. Dalla rinuncia al possesso palla intensivo, che non vuol dire rigetto totale della costruzione dal basso, piuttosto con una ricerca più rapida degli spazi in verticale dopo l’avvio della manovra con il portiere, i difensori centrali, i terzini. Non a caso, il dato grezzo sul possesso palla è stato solo leggermente a favore del Napoli (52%-48%). Certo, anche a Torino – come contro la Lazio – la squadra di Gattuso ha potuto giovarsi di un gol segnato piuttosto presto. Anzi, allo stadio intitolato al Grande Torino i gol sono stati addirittura due tra il decimo e il 12esimo minuto.

Anche lo schieramento del Torino ha in qualche modo agevolato il Napoli: Nicola ha disegnato sul campo un 3-5-2/5-3-2 piuttosto scolastico, in cui l’unica variabile era la posizione ibrida di Verdi, mezzala “nominale” che a volte trasformava lo schema in un 3-4-1-2 asimmetrico. È stato lo stesso schema fronteggiato contro la Lazio, e anche in questo caso si sono determinati dei frequenti due contro uno sulle fasce laterali. Proprio sulle corsie il Napoli ha costruito il suo dominio: il 70% delle manovre di Gattuso sono state costruite a destra (42%) o a sinistra (28%).

Ansaldi deve uscire sull’esterno basso del Napoli (Di Lorenzo), e così lascia solo Politano sull’esterno; quando il 5-3-2 difensivo non è aggressivo, i centrali difensivi tendono a rimanere troppo schiacciati e a determinare questi scompensi sulle fasce

È qui, in questi dati e in queste evidenze tattiche, che si manifestano le differenze rispetto ad altre gare di questa stagione. Il Napoli visto a Torino non ha rinnegato sé stesso, ha semplicemente modificato alcuni aspetti del suo piano di gioco per rispondere alle specifiche esigenze della partita. Per assecondare il contesto. Una necessità che, a volte, porta anche a privilegiare un meccanismo meno collaudato rispetto a uno storicamente più utilizzato. In questo senso, è significativo lo “spostamento” a destra: nonostante Gattuso abbia schierato Insigne nella sua zona di campo preferita, il Napoli non si è fossilizzato lì. Anzi, i dati dimostrano come siano stati invece Politano e Di Lorenzo a costruire la maggioranza delle azioni. Proprio da quella parte nasce il gol di Bakayoko.

Un gran bel tiro

Proprio questa azione dice tanto del Napoli visto a Torino, anche se a una prima impressione può sembrare un gol poco tattico. Non è così: da una rimessa laterale avversaria, su cui Di Lorenzo difende con aggressività, accorciando il campo, si determina un recupero palla in zona avanzata; a quel punto, Demme porta palla aprendosi verso destra, non cerca di smistare il pallone verso l’altra parte del campo; decide di non farlo anche perché Insigne si muove da seconda punta, anzi va ad attaccare l’area sul centro destra, lasciando la sua comfort zone a Zielinski; il Napoli continua a muovere il pallone sulla destra, Politano può sfruttare l’uno contro uno (ricordate il discorso sulla parità/inferiorità numerica sugli esterni?) e alla fine tenta il cross; la difesa ribatte e Di Lorenzo – nel frattempo salito a supporto, ma internamente – può appropriarsi della seconda palla e apparecchiare il passaggio per Bakayoko.

A quel punto, è la qualità individuale di Bakayoko, è una sua intuizione, a fare la differenza. Prima, però, il Napoli ha mostrato di avere intensità – un concetto chiave per chi scrive questa rubrica – e di saper/voler attaccare anche sul lato destro. Mentre Insigne agiva da seconda punta. Mentre il Torino pagava il suo atteggiamento e il gap di qualità rispetto al Napoli e gli scompensi tattici del suo schieramento rispetto a quello disegnato da Gattuso. Ecco a cosa serve la tattica calcistica, anche quella apparentemente più elementare: a creare le condizioni perché i giocatori più talentuosi possano incidere. Perché possano moltiplicare, non semplicemente sommare, le proprie qualità.

Dominio e controllo

Nel primo tempo di Torino-Napoli, la squadra granata è riuscita ad arrivare per 4 volte alla conclusione dopo un’azione manovrata. Di questi 4 tentativi, 2 sono stati respinti o deviati da un giocatore del Napoli. Il computo totale, sempre relativo ai primi 45′, dice che la squadra di Nicola ha centrato lo specchio della porta in una sola occasione: con Verdi, per altro al primo minuto di gioco. Dall’altra parte del campo, sono arrivati: i due gol, il tiro finito sul palo di Zielinski (a Sirigu battuto) e altre 5 conclusioni totali non respinte, di cui 2 dall’interno dell’area di rigore.

Ecco, questi sono i dati di una partita dominata. Di una prima frazione di gioco condotta in porto senza patemi, con personalità e qualità. Come detto sopra, il Napoli non ha rinunciato al possesso palla (anzi, il dato grezzo del primo tempo dice 58% in favore degli azzurri), semplicemente ha saputo verticalizzare e accelerare quando serviva. È così che la squadra di Gattuso ha saputo tenere il predominio territoriale ma anche essere pericolosa in avanti.

Distanze e posizionamento delle due squadre in fase offensiva

Come si vede chiaramente da questi dati, l’obiettivo – soprattutto nel primo tempo – è stato raggiunto grazie all’elasticità del Napoli. Un’elasticità formale e sostanziale, che ha permesso alla squadra di Gattuso di dilatare gli spazi in fase offensiva e di comprimerli in fase difensiva. Una sorta di movimento a fisarmonica garantito soprattutto dal gioco di Osimhen, sempre bravissimo ad allungare la difesa avversaria, ma assecondato anche dai suoi compagni. Nel corso della stagione, l’assenza e la successiva convalescenza del centravanti nigeriano hanno tolto questa possibilità al Napoli e a Gattuso, ma c’è anche da dire che anche in alcune partite prima dell’infortunio di Osimhen il Napoli aveva manifestato dei problemi di stagnazione tattica.

Il problema, se vogliamo, è che le idee di Gattuso per questo Napoli erano troppo belle e impegnative per poter essere (sempre) vere. Il tecnico calabrese, infatti, avrebbe avuto bisogno non di una rosa sempre completa in tutti i suoi effettivi, senza assenze e/o senza infortuni, ma anche impermeabile agli scadimenti di forma. Così avrebbe potuto proporre il suo calcio fatto di grande applicazione difensiva, di rientri profondi degli esterni, di compattezza; la sua fase offensiva che vuole aprire il campo in ampiezza e/o in profondità, un gioco che si autoalimenta a partire dalla costruzione dal basso e poi risale il campo sfruttando le catene sulle fasce, oppure gli scatti in profondità di Osimhen, oppure la capacità di legare il gioco di Mertens.

Come scritto più volte in questa rubrica, e come si è visto in Torino-Napoli e nelle ultime partite, per giocare in questo modo così completo e articolato occorre grande intensità. Una caratteristica che è impossibile da tenere sempre viva per 50 partite l’anno, se facciamo riferimento a una stagione “normale”. Figuriamoci in una stagione giocata con i ritmi imposti dalla pandemia da Coronavirus.

Il secondo tempo

Neanche nella stessa partita, sempre o quasi sempre, è possibile tenere standard di rendimento – fisici e psicologici – così elevati. E infatti, esattamente come era avvenuto in alcuni frangenti di Napoli-Lazio, il secondo tempo di Torino-Napoli è stato tatticamente più equilibrato. Era inevitabile, il Napoli non avrebbe potuto tenere l’intensità del primo tempo per l’intera durata della gara. I numeri chiariscono cosa intendiamo: fino all’espulsione di Mandragora, pur nel contesto di una netta superiorità netta da parte della squadra di Gattuso, Torino e Napoli hanno messo insieme lo stesso numero di conclusioni non respinte, praticamente (8-7 per gli azzurri); Anzi, la squadra granata ha tenuto di più la palla rispetto agli avversari (possesso nella ripresa: 52%-48% in favore del Toro).

 

Nel secondo tempo, il Napoli ha esasperato ancor di più l’atteggiamento verticale del primo tempo: in alto, un momento di gioco in cui Demme lascia il centrocampo praticamente sguarnito per proporsi in avanti, mentre Osimhen, Lozano, Mertens e Insigne tengono bassa la difesa del Toro; sopra, i numeri medi che certificano questa sensazione.

Non c’è niente di male in questo passaggio, anzi il Napoli e Gattuso hanno mostrato di possedere maturità gestionale, proprio in questo frangente. Gli ingressi di Mertens e Lozano, dopo un inizio non proprio brillante, hanno contribuito ad allungare ancora di più il campo offensivo, a rendere più pericolose e pungenti le ripartenze. E infatti i giocatori azzurri hanno fallito tantissime occasioni pure abbastanza semplici. È tutto chiaramente visibile nelle immagini appena sopra. Proprio grazie a uno strappo di Lozano è arrivata l’espulsione di Mandragora, quasi a voler dimostrare che un (ulteriore) cambiamento di uomini e di piano di gioco operato da Gattuso potesse essere la scelta giusta per portare definitivamente a casa il risultato.

Nel frattempo, il Torino ha costruito poche occasioni realmente pericolose, e comunque tutte di foga e di vigoria fisica, su calcio piazzato o su azioni casuali; solo il tiro di Ansaldi, ben contenuto da Meret, è nato da una manovra che ha realmente messo in difficoltà il Napoli. Rispetto alla gara con la Lazio, la differenza è evidente: l’ha fatta proprio il (minore) talento a disposizione di Nicola, molto inferiore rispetto a quello gestito da Inzaghi. Oltretutto, il tecnico del Torino non ha trovato gli strumenti tattici – difensivi e offensivi – per mettere davvero in difficoltà la squadra di Gattuso.

Conclusioni

Grazie ai risultati ottenuti nelle ultime settimane, e a quelli delle dirette concorrenti in zona-Champions, il Napoli ha il destino nelle proprie mani. Agli azzurri basterà vincere le proprie partite per arrivare nelle prime quattro posizioni, a prescindere dall’andamento delle altre candidate – il Milan dovrà infatti affrontare Atalanta e Juventus, ed è inevitabile che qualcuno perda punti.

La squadra di Gattuso si presenta allo sprint finale nelle migliori condizioni psicofisiche possibili. E non solo: e anche dal punto di vista della consapevolezza tattica la crescita sembra essere evidente. È una buona notizia, ma anche un peccato se si guarda a com’è andata la stagione, notare questo miglioramento nella gestione della squadra. Come detto più volte, Gattuso ha dovuto fronteggiare tanti inconvenienti, ma solo ora sembra essere davvero in grado di dare ciò che serve alla sua rosa. Ovvero: stimoli tattici continui, elasticità nel pensiero e nelle strategie, intuitività, improvvisazione.

Come ha scritto Massimiliano Gallo nel suo commento postpartita, la qualificazione Champions permetterebbe a tutti di voltare pagina con il sorriso. Al Napoli, ovviamente. Ma anche a Gattuso, anzi soprattutto a lui. Il tecnico calabrese potrà presentarsi alla sua nuova esperienza – se sarà lontano da Napoli, ma pare praticamente certo – con un bagaglio di conoscenze più ampio e vario. Già nel corso della prima parte di questa stagione, aveva fatto vedere di non essere un tecnico idealista e ideologizzato. A un certo punto, però, si è fatto travolgere dalla paura di cambiare troppo, di affrontare un’emergenza-infortuni (reale, verificata) prendendola di petto. E così ha finito per subirla. In questo finale potrà dimostrare di aver superato queste difficoltà, vissute in maniera similare anche al Milan. Portare il Napoli il Champions non sarebbe un’impresa, ma un buon risultato su cui costruire il suo futuro.

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