ilNapolista

Donnarumma professionista infame: nel calcio il bacio della maglia è il fine pena mai

Il calcio ha un modo tutto suo di ignorare la natura dei contratti di lavoro. Conta la giuria popolare, il romanticismo imbruttito

Donnarumma professionista infame: nel calcio il bacio della maglia è il fine pena mai

Il problema vero di Donnarumma, il peccato originale da cui si dipana la telenovela successiva, è il bacio della maglia. Un tic dei calciatori in crisi ormonale: hai vinto, sei felice, ami tutti, abbracceresti il mondo intero e amoreggi con la divisa di gioco, sudata. Nel calcio quello è un matrimonio, un contratto vincolante, fine pena mai. Hai baciato la maglia, sei fottuto. Donnarumma l’ha baciata un sacco, la maglia del Milan. Da quando aveva 15 anni e sognava di diventare “il portiere più forte del mondo” (funziona così, a quell’età, credi che il mondo sia fatto a immagine e somiglianza di Holly e Benji), fino ai 22 attuali, in cui va via perché… vuol diventare “il portiere più forte del mondo” (Holly e Benji forever).

Sette anni per costruire un tradimento inevitabile. Perché come tale sarà processato dal tribunale del popolo: “venduto!”. Non scappi, il dio del romanticismo, nel pallone, è violento, e vendicativo. T’aspetta al varco. La dittatura delle favole produce una ritorsione continua, è un codice quasi criminale. La gente vuole le “bandiere”, e se non le ha le brucia.

Oggi il Corriere dello Sport sottolinea giustamente che la decisione di lasciare il Milan è stata presa da Donnarumma in persona. E non dal suo agente-carnefice Mino Raiola.

“Donnarumma si sentiva oramai un pezzo dell’arredamento di Milanello. Ha scelto di cambiare per crescere, per diventare il numero uno al mondo, come da vecchia promessa personale”

Perché, nel frattempo, la deviazione complottista aveva preso il sopravvento: essere rappresentati da Raiola nell’immaginario collettivo equivale ad essere vittima condizionata d’una setta, quasi un rapimento. Raiola guadagna in percentuale su ogni trasferimento, quindi corrompe le giovani menti dei suoi fuoriclasse inducendoli – maledetto! – a rovinose carriere miliardarie. Donnarumma, nella fattispecie, corre il rischio di finire al Barcellona con Messi e Aguero.

Il retroscena del Corsport ha un doppio effetto: da un lato alleggerisce l’immagine del portiere soggiogato dal suo carceriere, ma dall’altro aggrava – agli occhi della giuria popolare – il peso della colpa, “è stato lui e solo lui, signori della corte, nella piena facoltà di intendere e di volere a progettare siffatto atto di slealtà”. In entrambi i casi Donnarumma non ne esce bene.

Il calcio ha un modo tutto suo di ignorare la natura dei contratti di lavoro. La scadenza è un trauma, la libertà di rifarsi vita e carriera altrove è invero condizionata dal tranello morale. Ancor di più se le cifre in ballo vengono offerte al pubblico ludibrio. Il tuo percorso professionale deve essere vidimato ai banconi dei bari, dal barbiere, al mercato. Non puoi rifiutare un rinnovo da 8 milioni di euro l’anno, “è immorale”, qui c’è gente che per campare la famiglia si alza alle cinque signora mia. Peggio poi se il dibattito entra nel dettaglio tecnico, con malcelata invidia: “Ma chi ti piglia? Che sei, portiere da 10 milioni l’anno tu?”.

I club invece passano per vittime d’un sistema deteriore. Si raccontano come sotto scacco. Il caso di Antonio Conte è esemplare. Conte aveva un altro anno di contratto, con l’Inter. Non era libero di fare quel che gli pare, come Donnarumma. Eppure per andarsene prima del tempo ha preteso una lauta buonuscita (per “lauta” s’intende il corrispettivo d’un anno di contratto di Mourinho…). La società – che non aveva alcuna voglia di lasciarlo andare – avrebbe potuto facilmente far valere la forza del vincolo: sei pagato, e alleni un altro anno, poi vai dove vuoi. E invece che fa? Lo libera – strapagandolo – per ritrovandosi a dover ingaggiare un sostituto. Perché? Che aveva quel contratto di sbagliato per farne carta straccia così facilmente?

L’analisi dei fatti suddetta tradisce un’illusione: che il calcio gestisca i suoi affari come un’industria matura. In cui i professionisti che tante energie sprecano a dirsi tali vengono poi giudicati con quel metro. In cui un contratto scade e se una delle due parti ritiene di non doverlo rinnovare amen. Senza drammatizzazioni accessorie. Senza l’innesco di banali e noiose logiche da soap brasiliane.

Donnarumma ha giocato – stipendiato il giusto – per il Milan, per sette anni. Ora lui, consigliato da colui che s’è scelto come rappresentante, crede di valere di più non solo economicamente. Ha tutto il diritto di essere trattato come un adulto senziente, che della propria vita (non solo lavorativa) fa ciò che più gli aggrada. A meno di non considerare il bacio della maglia come una leva etica, una promessa coercitiva. In quel caso siamo noi a non essere ancora usciti dalla pubertà. “Dollarumma” funziona bene in una storia di Paperino, non oltre.

ilnapolista © riproduzione riservata