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Gianni Morandi: «Il rapporto con la gente? L’ho apprezzato di più da quando non mi filava più nessuno»

Intervista al Domani: «Dopo il 68 cambiò tutto. Con Dalla ci chiedevamo: “ma chi è Jovanotti?”. La musica leggera è Napoli, tutto viene da lì»

Gianni Morandi: «Il rapporto con la gente? L’ho apprezzato di più da quando non mi filava più nessuno»

Il Domani ospita una lunga intervista a Gianni Morandi. Jovanotti ha scritto per lui un nuovo brano. È proprio Morandi ad averglielo chiesto, a gennaio. Al quotidiano Morandi racconta come ha conosciuto Jovanotti.

«Lorenzo lo conosco dal 1988. Avevo fatto il disco con Lucio Dalla eravamo gasati, andò benissimo fin da subito. Eravamo a fare le prove per il tour, il disco vendeva 15.000 copie un giorno e 25.000 quello dopo e noi ci dicevamo «cazzo fratello siamo primi in classifica sicuro». Poi il venerdì arriva la classifica e leggiamo: «Numero uno, Gimme five, Jovanotti». Ma chi cazzo è Jovanotti dico io a Lucio; anche lui rimane sorpreso, «ma dai sarà uno di quelli di Cecchetto, finisce subito» dice. E aggiunge: «Vedrai che la settimana prossima siamo numeri uno, abbiamo venduto ancora un sacco di copie!» Arriva la nuova classifica: «Numero uno: Jovanotti». «Ma porca puttana non riusciamo a diventare i numeri uno». Poi siamo andati anche noi al numero uno, ci alternavamo, ma insomma, così ho scoperto che esisteva Lorenzo. Poi l’ho incontrato durante una manifestazione delle forze armate allo stadio dei Marmi a Roma, c’era l’esercito eravamo entrambi ospiti».

Morandi racconta gli anni di crisi dopo il 1968.

«Arrivò il ’68 e ci svegliò tutti quanti. Partì la stagione della protesta, le Brigate rosse e gli attentati neri, gli anni dell’austerity. Nel 1973 non c’era carburante, le autostrade erano vuote, c’erano di nuovo i cavalli e le biciclette. Anni terribili. E io, che ti devo dire, tutto quel tipo di repertorio che proponevo improvvisamente fu rifiutato, non era più attuale, non era più nell’aria. Non capivamo che era cambiato il mondo, che arrivavano gli americani e arrivavano i cantautori che fecero diventare la canzone italiana un’altra cosa. Con l’eskimo e le canzoni impegnate tutta l’immagine legata agli anni ’60 venne rifiutata in blocco. Io non capivo cosa stesse succedendo intorno a me, però capivo che non suonava più il telefono, quello l’ho capito, sono un po’ scomparso per una decina di anni. Anche gli stessi cantautori venivano contestati; De Gregori fu attaccato sul palcoscenico al grido di «bastardo capitalista» e «servo delle multinazionali». Per due o tre anni fu complicato anche per lui, e questo dice molto su quel periodo».

Proprio gli anni di crisi gli hanno insegnato a mantenere sempre vivo il rapporto con la gente, a non temere di perdere un po’ della sua privacy.

«Ho sempre pensato che fosse parte del gioco. Perdi un po’ della tua privacy e della tua intimità ma l’attenzione delle persone ti dà sempre qualcosa. Vengono da te, partecipano alla tua vita; è una specie di senso della collettività, no? Dopo gli anni della crisi l’ho apprezzato ancora di più, perché ho scoperto che è molto peggio quando non viene nessuno. Negli anni ’70 io andavo al conservatorio di Santa Cecilia in via dei Greci a Roma, che è vicino a piazza del Popolo. Parcheggiavo la macchina e prendevo via del Corso. La gente mi guardava e vedevo che parlottavano, come a dire «poveraccio, che fine ha fatto!». Mi sentivo quasi commiserato, sempre con tenerezza, ma fu un sentimento diverso e doloroso. E allora meglio il casino! Sia quello di prima che quello dopo gli anni ’70!».

L’unica cosa che si augura, è di non diventare patetico nel suo fare casino.

«Spero solo di non diventare patetico. Sai quelli che si ostinano anche se nessuno li vuole più vedere, nessuno compra un biglietto per vederli a teatro, ma, niente si ostinano. Ecco io non voglio arrivare a quello, spero proprio di no. O forse ci sono già dentro?».

Gli chiedono: se dovessi spiegare a un alieno cos’è la musica leggera italiana, cosa gli diresti? Risponde:

«Napoli. Viene tutto da quella tradizione, e ancor prima da Verdi e Puccini, ma quella è la base. Siamo fortunati, non ci sono molte altre tradizioni così pure: ci siamo noi, la musica brasiliana, la black music e cos’altro? Il resto è sovrastrutturato, derivativo. Boh, non saprei dirti meglio di così».

 

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