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Giovanni Veronesi: «Ripenso a mio padre e mia madre ogni giorno, sento un vuoto profondo»

Al Corriere: «In ogni film metto qualcosa che me li ricorda e fa sentire vicini. Non mi hanno insegnato a vivere, ma come si muore: con grande dignità»

Giovanni Veronesi: «Ripenso a mio padre e mia madre ogni giorno, sento un vuoto profondo»

Il Corriere della Sera intervista Giovanni Veronesi, regista, sceneggiatore, attore e conduttore radiofonico. Fratello dello scrittore Sandro, è legato sentimentalmente all’attrice Valeria Solarino da 18 anni.

«Quando mia madre mi portava al mare, avevo 5-6 anni ed ero scalmanato. Lei mi salvava la vita tutte le mattine perché se non mi avesse stretto la mano così tanto da non farmi sgusciare via, io avrei attraversato sempre con il rosso viale Kennedy a Fiumetto per raggiungere al più presto il mio amico Gerardo, figlio del bagnino. Non mi rendevo conto del pericolo».

Dice che per il mestiere che fa si sente «una delle persone più fortunate che conosco». E parla del rapporto che ha con il ricordo dei genitori, entrambi morti.

«Sono uno di quelli che non ha elaborato il lutto. Dicono ci voglia un anno, e invece ne sono passati dodici e io niente. Ripenso a mio padre e a mia madre ogni giorno. Sento un vuoto profondo: sono stati talmente importanti che non è possibile sostituirli con nessun passaggio di tempo, nemmeno tra 100 anni riuscirei a vivere felicemente come ho vissuto fino a quando c’erano loro. In ogni film metto qualcosa che me li ricorda e fa sentire vicini».

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«Eppure non ero particolarmente mammone. Li chiamavo ogni 3-4 giorni, talvolta non li vedevo per due mesi. Nel momento della malattia, però, io e Sandro siamo stati con loro fino alla fine: è una cosa che auguro a tutti di poter fare, è un passaggio di testimone che deve essere fatto dove sei cresciuto».

Il loro più grande insegnamento è stato affrontare la morte con dignità.

«I miei genitori non mi hanno insegnato a vivere, ma come si muore: con grande dignità».

Veronesi è molto vicino a Francesco Nuti. Parla anche di lui.

«Lui non fa parte della mia famiglia, ma è come se fossimo fratelli. Se non ci fosse stato lui il mio mestiere non sarei riuscito a farlo in questo modo, entrando dalla porta principale. A parità di talento ne ho visti tanti rimanere al palo, io non mi reputo Kubrick, so benissimo quali sono miei limiti. Sono stato aiutato un po’ dalla fortuna e molto da Francesco, che nei primi anni della mia carriera mi ha spalleggiato, mi ha prodotto film, me li ha fatti scrivere».

Va sempre a trovarlo in clinica. Gli chiedono se pensa che lui capisca.

«Non sono sicuro, ma la speranza è talmente tanta che esco sempre soddisfatto. E poi lui sorride, mi guarda, alle volte spero che non capisca perché ho paura che possa soffrirne».

 

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