Gli amici che si regalano 20.000 euro a Natale, Muriqi “una pippa da 18 milioni”, il figlio di Lippi pestato: il vero cuore dell’inchiesta è il modo di fare di questo Paese
I principali nodi dello “scandalo”, Report li aveva già somministrati nei trailer. L’inchiesta sulla “mafia” del calcio, col fuoco puntato quasi tutto sui procuratori, aveva già raggiunto il suo scopo prima della messa in onda, la generazione virale di un solo unanime commento: che schifo, vergogna. Gli affari, il sottobosco, le plusvalenze, la cittadinanza offshore dei personaggi più ricchi. Si sapeva molto, quasi tutto. Ma è nei particolari che si nascondeva il vero appeal di questa puntata. Il rumore di fondo, i colori dello scenario, l’aneddotica da basso impero. Riletti a posteriori rendono perfettamente la postura del calcio, di un mondo che cerca di vendersi retto come “una grande industria” e che invece è piegato, appiattito sul modus operandi da faccendieri, intrallazzatori, piccoli criminali, “pezzenti sagliuti”.
La “guerra tra i procuratori”, che è la tesi di tutto il servizio di Daniele Autieri, è raccontata col registro caricaturale che i protagonisti meritano. La colonna sonora, i trucchetti grafici, le voci contraffatte tipo pentito di Corleone anni 90, i fuorionda scippati. Tutto perfettamente aderente ad una realtà in cui il figlio del commissario tecnico della nazionale campione del mondo, Davide Lippi, viene pestato come avvertimento: non provare a prendere la procura di questo o quello che finisce male. Si badi: le botte, nel racconto che ne fa non sapendo di essere ripreso Vincenzo Morabito (un decano, tra i procuratori), hanno una descrizione onomatopeica: si abbassa il tono della voce, la mano messa di taglio che fa su e giù, i paccheri diventano un sibilo, un fischio: “Davide ffff”, le ha prese, ha “abbuscato” insomma.
Morabito poi dice che “Davide è un anno e mezzo che s’è un po’ ritirato per paura di…”. E racconta che un altro, Giuseppe Riso, una volta allo stadio ha ricevuto una telefonata “dalla stessa banda” ed “è sbiancato”. “Lo volevano ammazzare”.
I procuratori, anche quelli più famosi, sembrano tutti dei simil-Raiola. Donato Di Campli, per esempio. L’agente di Marco Verratti, tra gli altri. Che nell’intervista è abbigliato così:
Lo stile è prototipale, fa tanto pinocchietto, Crocs e borsello ma coi milioni in banca. Sicché il giornalista sceglie – commercialmente paga tantissimo – il tono da spionaggio di serie B. Si fa riprendere perfettamente incappellato (sembra Marty McFly-agente segreto in Ritorno al Futuro 2) che s’avvia quatto quatto a incontrare la sua fonte misteriosa. E descrive l’avventura così:
“Ci lascia un pizzino, ci dice di raggiungere un bar e da lì chiamare un cellulare. L’uomo che ci risponde ci chiede di attraversare la strada, è seduto in un taxi e ha il cappuccio calzato in testa. Ci allunga una busta”
Il taxi è bloccato nel traffico di Mergellina, davanti agli chalet. Sembra la premiazione di un talent (“ci è arrivata la busta… l’agente corrotto è…”, rullo di tamburi) dentro un film di Piedone. La busta non comparirà mai più, in tutto il servizio. Ma la sceneggiata televisivamente è perfetta.
Tutto impacchettato per consegnare il viaggio incalzante in un labirinto in cui si muovono brutte persone che fanno brutte cose. Vincenzo Morabito “oggi vive a Lugano, e da lì muove le sue pedine”. L’innesco tra famiglie mafiose pugliesi e le aderenze albanesi di Tare e dell’entourage Lazio. Tutto così.
Nelle more non manca l’occhiolino allo spettatore ogni volta che i protagonisti sono del sud. Una geografia con dei significati sottintesi. Ripetuta, calcata. Mario Giuffredi (il procuratore di Veretout) “viene da Ponticelli, un quartiere difficile”. La colonna sonora dell’intervista è un pezzo neomelodico, ovviamente (“Sient’ amic’, chell ca te dic…”). E così Giuseppe Riso “è nato a Reggio Calabria e faceva il cameriere”. L’origine calabrese è una carta d’identità professionale, nel suo caso: suggerisce che ci sia una connessione con una certa provenienza e i rapporti che tesse in seguito (Berlusconi, Galliani, il Milan, il Ristorante Giannino). Il collaboratore che racconta a Morabito della telefonata di minacce a Riso “è di Salerno”. Che si sappia, eh.
Uno che esce malissimo da quest’ora di tv post-verità è il povero attaccante della Lazio Vedat Muriqi. Dipinto come “una pippa, un bidone”, acquistato a peso d’oro solo per la spartizione delle fette della torta. Morabito nel fuorionda ne parla così:
“Paghi 18 milioni un giocatore che è una pippa… Simone (Inzaghi, ndr) m’ha detto ‘io mi metto le mani nei capelli’… Non tocca palla. Radu mi ha detto ‘quando marco lui mi metto le pantofole’. Un bidone pazzesco!”
Radu ha già annunciato querela nei confronti di Morabito, era ovvio.
Resta, più di tutto, la sensazione di sporcizia generale. E il timore che questa melma sia una fedele rappresentazione di tante altre prassi che in questo Paese sono la normalità. A Natale, abbiamo imparato, questa gente si regala bonifici da 20.000 euro, alcuni (tipo il romano Parnasi) si spingono generosi fino a regali da 300.000 euro. Lo ammette candidamente Mario Giuffredi, che quel versamento fa a Luigi Sansò pluripregiudicato anche per reati vicini alla criminalità organizzata: “Sansò è un mio amico dal 1997, da quando avevo 23 anni. E’ un regalo di Natale che mi sentivo di fargli”.
Dov’eravamo quando distribuivano gli amici veri?