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Il papà di Aldrovandi: «Vietare negli stadi la sua bandiera fu come mettere la polvere sotto il tappeto»

Intervista al Foglio Sportivo: «Va anche contro la polizia, ci vuole trasparenza. Una multa di un tifoso la pagai io simbolicamente. Federico riuscì a unire le curve di tutta Italia»

Il papà di Aldrovandi: «Vietare negli stadi la sua bandiera fu come mettere la polvere sotto il tappeto»

Il 25 settembre 2005 Federico Aldrovandi, un giovane ragazzo di 18 anni, era appena tornato da Bologna, dove aveva passato la serata in un locale con degli amici. A Ferrara, sulla strada di casa, fu ucciso di botte da quattro poliziotti che lo avevano fermato per dei controlli. I quattro sono stati condannati.

Federico era tifoso della Spal, come il padre Lino, oggi intervistato da Fulvio Paglialunga per Il Foglio Sportivo. Del legame del figlio con la squadra di Ferrara, il padre raccontò per la prima volta quattro anni fa, con un post sui social. Racconta che decise di scriverlo perché la Spal era una delle gioie che condividevano. Dopo ogni vittoria, Federico chiedeva al padre: “Papà, che ha fatto oggi la Spal?”. Solo dopo le vittorie. Lino pensa che lo faceva per farlo felice.

«Lo faceva perché mi voleva dare una soddisfazione, per sentirmi felice. Non era un ragazzo che chiacchierava tanto, ma quando lo faceva aveva un motivo. Ho capito anni dopo il senso di quella domanda fatta sempre dopo una vittoria e mai in altre occasioni. L’ho capito quando la Spal ha vinto il campionato e lui non c’era più, ma era rimasta la forza dei suoi gesti più semplici».

Cos’era la Spal per Federico?

«Lui non frequentava lo stadio, non era un grande appassionato. Ma aveva la delicatezza di trattare bene la mia passione, lo faceva quasi per valorizzare il mio credo. Però giocava, gli piaceva molto. Anche quel 25 settembre aveva giocato a calcetto con gli amici. Tornò a casa sudatissimo e aveva anche rotto le scarpe. Era dispiaciuto per le scarpe, gli dissi che non importava. Poi mi disse: “Papà, stasera vado a Bologna” e quando, finita la serata a Bologna, è tornato a Ferrara sapete cosa è successo. Sì, l’ultima volta che ho visto Federico vivo veniva da una partita di calcio».

Racconta quando portò Federico per la prima volta allo stadio.

«La prima volta è stata quando aveva quattro anni. Lo portai in curva in un’amichevole della Spal contro l’Atalanta, ad agosto. Sentiva la gente che urlava intorno a lui e si lasciava trascinare, anche perché a quell’età non conosceva bene le regole. A un certo punto schizzò in piedi gridando “gol!”, ma dovetti spiegargli che la palla non era entrata, era calcio d’angolo. Intorno a noi molti sorridevano divertiti».

Ad un certo punto, negli stadi è iniziata a spuntare la bandiera raffigurante il viso di Federico.

«Era Spal-Cagliari, e io ero in gradinata. Non sapevo nulla e a un certo punto vidi spuntare questa bandiera maestosa, con l’immagine di mio figlio. Piansi, perché in quel momento avrei voluto abbracciare tutti i ragazzi della Curva, li sentivo miei figli. Ho un nodo in gola ancora adesso, quando ricordo. È stato un momento in cui, pur non essendo un gran credente, ho immaginato Federico che da qualche parte poteva vedere tutto e accarezzare la gente che, allo stadio, si stava prendendo cura del suo ricordo».

Ad un certo punto, però, fu proibito mostrare quella bandiera allo stadio.

«Non so perché accadde, me lo sono sempre chiesto. Cos’è che fa male di Federico? I regolamenti non sono una risposta, perché vietare ai tifosi della Spal di portare la loro bandiera, multare i tifosi del Bologna, della Roma, del Parma, della Sampdoria, di tante altre squadre è un’ingiustizia. Non c’era nessun messaggio offensivo: era solo un volto. Si era creato un paradosso così grande che io, tifoso ma anche padre di Federico, non avrei avuto la possibilità di andare allo stadio con una maglia con il volto di mio figlio stampato sopra».

Le forze dell’ordine definirono quella bandiera “una provocazione”.

«E non lo era. Una multa di un tifoso ho scelto di pagarla simbolicamente io, altri hanno fatto ricorso tramite un’associazione. Per me era come se volessero mettere la polvere sotto il tappeto, perché non può far paura il volto di un ragazzo che è già stato ucciso. Ma nascondere la polvere va anche contro la polizia, non la protegge, perché invece dev’essere il massimo della trasparenza».

Ma le bandiere non sparirono, anzi, si moltiplicarono, grazie all’iniziativa #Federicoovunque.

«Ci siamo sentiti meno soli. Con noi, sin dall’inizio, tutta Italia è stata fantastica. Nelle curve era spariva la rivalità, Federico era un colore unico per tutti. Sedici anni dopo la sua morte, continuo a ricevere ancora parole bellissime da ultras di tutta Italia, che tifano per noi, per Federico, anche per la Spal. Vedo l’amore per Federico riflettersi negli altri. A Federico è riuscita l’impresa di unire le curve di tutta Italia. Il suo ricordo ha unito e mi dà una gioia incredibile. Noi non sappiamo nemmeno perché siamo su questa terra, ma dobbiamo starci nel modo migliore, più bello. Ogni curva è rimasta sulla sua posizione politica, calcistica, nessuno ha perso il campanilismo che nel calcio è importante, ma l’unione spontanea nel nome di mio figlio è stata meravigliosa, ha fatto capire quanto è importante la vita di ciascuno di noi. È qualcosa che mi porterò dietro per sempre. Ho trovato un tesoro, nei ragazzi di Ferrara, in quelli di Lecce, in quelli di Roma che ogni volta che passano per Ferrara portano fiori nel luogo dove Federico è stato ucciso, ma in qualunque tifoseria, anche in quella del borgo più piccolo».

Lino Aldrovandi spera di tornare presto allo stadio.

«Perché la forza che ti dà uno stadio fa sembrare possibile anche che si possa sconfiggere la morte. Come è successo con Federico, che vive così».

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