Da noi le discussioni sui diritti civili sono derubricate a reati d’opinione. Nell’economia che conta, fanno la differenza per garantirsi i migliori
Esaurito il tratto del comprensibile scorno nazionale provocato dalla vicenda Gattuso al Tottenham, è bene anche considerare la componente economica del tema dei diritti civili nell’ambito professionale, non soltanto calcistico. In Italia, non a caso regione europea marginale, le discussioni intorno alla diversity and inclusion vengono velocemente derubricate tra i fantomatici reati di opinione, tanto che i più accaniti conservatori (in taluni casi autentici retrogradi), che di tali presunti reati ne fanno bandiera, si beano addirittura dello status di “politicamente scorretti” che tanto va di moda tra maître à penser nostrani. Tuttavia, nell’economia che conta, non esiste la possibilità di bollare questi argomenti come di secondaria importanza. I CEO delle più grandi compagnie del mondo si fanno promotori, ormai da anni, di politiche interne ed esterne dirette al rispetto del sé non per fare un po’ di pubblicità a basso costo alla società che rappresentano, piuttosto per assicurarsi i talenti migliori del pianeta. Ciò avviene per un meccanismo assai semplice: i migliori sono coloro che possono fare la differenza in un gruppo ma anche coloro che godono del potere contrattuale maggiore – cioè quelli che possono andar via, magari alla concorrenza, in un qualunque momento.
Ecco, dunque, che un talento che si riconosca o semplicemente giudichi sensate le istanze di una qualunque delle comunità che lottano contro un qualsivoglia tipo di discriminazione (di genere, di razza, di nazionalità, di identità sessuale) preferirà dirigersi dove le politiche societarie siano compatibili con le proprie. Dove il rispetto del sé sia garantito.
Si badi bene che il peso economico di queste decisioni è gigantesco. Chi, dunque, ancora si illude che le proprie idee personali, per quanto discriminatorie, siano inviolabili e distinte dalla vita professionale, è bene che esca di casa ed inizi a informarsi bene, per evitare spiacevoli sorprese. Negli USA ci sono esempi di dimissioni di massa con aziende messe in ginocchio (Basecamp è uno di questi) per aver sottovalutato l’importanza di questi temi – soprattutto per non aver compreso che il manico, in un mercato del lavoro basato su competenze specifiche, ce l’hanno sempre più i talenti maggiori. Guardando a tutto questo, non può far che sorridere il livello della discussione in Italia. Quand’anche si volesse separare completamente il contenuto politico da quello professionale (e ci sarebbe da discutere a lungo sulla ragionevolezza di questa opzione) è bene capire che la schiettezza con la quale tanti dirigenti del nostro calcio ritengono che i cori ai giocatori di colore siano uguali a quelli indirizzati ai calciatori bianchi, tanto per dirne una, ha come naturale conseguenza la scelta di moltissimi talenti, di colore e non, di evitare accuratamente di mettere piede in Serie A. In breve, l’arretratezza culturale del calcio italiano non è che una delle cause della stagnazione economica dello stesso.
Questo giusto per ricordare che, a chi ancora pensa che con la cultura non si mangi (o a chi, ancor peggio, piacciono tanto le accalorate discussioni sul non meglio identificato mainstream), è fortemente consigliato di guardare con un po’ di attenzione maggiore la realtà circostante.