Oggi lavora con il Psg e Klabu per restituire a tanti bambini la loro infanzia perduta attraverso lo sport e il calcio, come è stato per lei
L’Avvenire racconta oggi la storia di Nadia Nadim, 33 anni, professione – tra le altre «centravanti d’area di rigore»
una passione per il calcio sbocciata in un campo profughi, dove tra la paura e il senso di abbandono è stato un pallone a darle la forza di andare ava
Nadim gioca con la selezione femminile del Psg con cui ha appena vinto il campionato, ma intanto lavora come ambasciatrice per le Nazioni Unite, studia le lingue per poter svolgere al meglio il suo ruolo (al momento ne parla fluentemente nove), ed è anche riuscita a diventare chirurgo.
Aveva appena 11 anni quando suo padre venne giustiziato a Kabul, racconta alla CNN. Scappò su un camion pensando di arrivare in Inghilterra, ma il suo viaggio terminò in Danimarca dove è cominciata la sua avventura nei campi profughi dove l’unico pensiero era “restare in vita”.
È stato lì che Nadim si è avvicinata al calcio
«C’era una squadra di calcio vicino al campo profughi e ho potuto imparare come funziona: le formazioni, le regole. Volevo giocare nel modo in cui si giocava a calcio lì»
L’entusiasmo che lo sport e il calcio le hanno restituito dopo un’infanzia rubata dalla guerra e dalla violenza, è quello che Nadia vorrebbe poter dare ad altri centinaia di ragazzi, attraverso un progetto portato avanti con il Psg e Klabu, un’organizzazione benefica, si è attivata per portare quel gioco che le ha stravolto la vita nei campi profughi di tutto il mondo.
«Immaginate se tra le centinaia di migliaia di rifugiati di Cox’s Bazar (il più grande campo profughi del mondo, in Bangladesh, ndr) due, tre calciatori famosi andassero a portare aiuti e speranza, quanti bambini resterebbero estasiati».
Il progetto è di costruire un “Club Center” utilizzato come biblioteca sportiva, che fornirà l’accesso a kit e attrezzature, oltre a offrire sessioni di allenamento e tornei per bambini.