Lo sfogo dei nuotatori inglesi e americani, dopo i due ori di Rylov. Hanno bandiera e inno diversi ma il programma di doping di stato non è stato affrontato
La Russia ufficialmente non è alle Olimpiadi. Ma gli atleti russi sì, e continuano a vincere. Portano gli stessi colori, solo con grafiche diverse. E sul podio non possono cantare l’inno russo, ne cantano un altro. Per il resto la squalifica per doping (ridotta da 4 a 2 anni) inflitta alla Russia dal Tas è un grosso elefante invisibile nella stanza dei Giochi di Tokyo. Riportato in prima pagina dalle lamentele di due nuotatori, l’americano Ryan Murphy e il britannico Luke Greenbank. Che sono finiti rispettivamente secondo e terzo nella finale dei 200 metri dorso vinta dal russo Evgenij Rylov.
Rylov aveva vinto anche la medaglia d’oro nei 100 metri. Murphy non l’ha presa bene e s’è sfogato:
“Ho almeno quindici pensieri in testa, tredici dei quali mi possono mettere nei guai. Cerco di non farmi coinvolgere troppo, ma è veramente faticoso per me andare avanti tutto l’anno sapendo che la mia gara probabilmente non è pulita“.
Greenbank sulla stessa linea:
“È frustrante sapere che è in corso un programma di doping sponsorizzato da uno stato e che non si fa più nulla per affrontarlo”.
Rylov ha risposto serafico:
“Ryan ha tutto il diritto di pensare e di dire quello che vuole dire. Io non voglio vivere nel passato”.
Il problema è che quel “passato” è un presente pesante, alle Olimpiadi. Sono 330 gli atleti russi a Tokyo, anche se non hanno bandiera o inno. E vincono, anche se non possono chiamarsi russi.