“La vendetta del boss” il libro di Antonio Mattone sull’assassinio commissionato negli anni ’80, quando il carcere di Poggioreale era un inferno
«Sì, l’ho fatto io l’omicidio di Salvia. Lui si accaniva contro di me, non so perché, non lo faceva con gli altri, ma mi faceva sempre perquisire. E per questo gli diedi due schiaffi».
A parlare così fu Raffaele Cutolo, il 22 luglio 2019, quando era rinchiuso nel supercarcere di Parma, al 41 bis. Confessò di essere stato il mandante dell’omicidio di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, ucciso nel 1981 perché così voleva il boss della Nuova camorra organizzata. Dall’altro lato del tavolo, a raccogliere la confessione di Cutolo, quel giorno, fu Antonio Mattone, volontario da anni nel carcere partenopeo insieme alla Comunità di Sant’Egidio.
Mattone racconta l’episodio nel primo capitolo del libro “La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia” (edito da Guida, con prefazione di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio). Un saggio romanzato di recente pubblicazione in cui ripercorre la storia di Salvia e offre una descrizione accurata e cruda delle condizioni di vita a Poggioreale negli anni ’70 e ’80, con collegamenti ad alcuni eventi che accaddero in quel periodo, come il rapimento di Ciro Cirillo, per il cui buon esito si spese proprio Cutolo.
Cutolo fece uccidere Salvia perché, disse, cercava di contrastare il suo potere all’interno del carcere napoletano. In realtà, Salvia era “soltanto” un servitore dello Stato intenzionato a far rispettare le regole e anche, paradossalmente, a restituire condizioni di maggiore dignità proprio ai carcerati.
Fu ucciso mentre era in auto, diretto verso casa, in Tangenziale. Fu dimenticato per anni. Solo nel 2013 gli è stato intitolato il carcere di Poggioreale. Oggi l’istituto penitenziario porta il suo nome. Fino ad allora, Salvia è stato dimenticato. Lo Stato lo abbandonò già prima della morte. Quando il vicedirettore di Poggioreale si rese conto che la vita all’interno del carcere napoletano non era più sostenibile, chiese di essere trasferito a Procida. Purtroppo il trasferimento arrivò dopo la sua morte, quando era ormai troppo tardi. Lo Stato non si costituì parte civile neanche al processo per il suo assassinio.
Negli anni ’70 e ’80, Poggioreale era un vero e proprio inferno. Comandavano i detenuti eccellenti come il boss Cutolo, grazie anche alla complicità di guardie carcerarie corrotte o terrorizzate dal pensiero di esecuzioni dovute al loro senso del dovere. Mattone racconta nel dettaglio il rapporto tra camorristi, Brigate Rosse e personale carcerario, regalando una fotografia accurata delle condizioni di vita nel carcere e delle strutture della criminalità organizzata.
La Nuova Camorra Organizzata di Cutolo si contrapponeva alla Nuova Famiglia, uno scontro che avveniva non solo in città, ma anche all’interno del carcere. Dalla sua cella, Cutolo riusciva a impartire i suoi ordini di morte.
Cutolo era un privilegiato, che nessuno osava toccare. Aveva addirittura un altro detenuto come assistente. La sua cella restava sempre aperta, in barba a qualsiasi regolamento. A questo si opponeva Salvia, che desiderava solo far rispettare le norme carcerarie. Non in modo sterile. Salvia ascoltava i carcerati, si relazionava ad essi ed alle loro famiglie con grande sensibilità e umanità. E lo stesso faceva con i suoi collaboratori.
Poggioreale era nelle mani dei detenuti. Mattone ricostruisce le sparatorie, con armi che non avrebbero dovuto essere presenti in un carcere, armi (non solo coltelli, ma anche pistole e mitragliette) nascoste così bene che nessuna retata riusciva a trovarle. Racconta della famosa “cella zero”, delle rivolte sanguinose, del terremoto nel carcere, che fu occasione per una strage di detenuti contro altri detenuti.
Nel libro viene raccontata anche la vita più intima di Salvia, la sua infanzia, i suoi affetti familiari, la grandissima dignità della moglie e dei due figli nell’affrontare la tragedia e la loro capacità inaspettata di perdonare gli assassini del marito e del padre.
Da molti anni entrambi i figli di Salvia, con la madre, partecipano al pranzo di Natale organizzato a Poggioreale dalla Comunità di Sant’Egidio. Antonino, il figlio maggiore, è impiegato nell’amministrazione penitenziaria come formatore del personale. Claudio invece lavora in Prefettura. Prima di partecipare al pranzo di Natale, racconta Mattone nel suo libro, Claudio
«aveva avuto un senso di scetticismo sul recupero dei detenuti, soprattutto di quelli incalliti. Li considerava irrecuperabili e quella casa circondariale era il luogo dove riteneva fosse radunato il peggio della società».
Dopo il primo pranzo, e dopo aver scambiato qualche parola con i detenuti, il suo animo cambiò completamente:
«Aveva avuto contatto con una realtà che pensava completamente diversa. I carcerati erano persone come tutte le altre e gli vennero in mente le parole del padre, attraverso i racconti della madre: quando non si ha una guida, una famiglia che ti educa, allora è facile perdersi».
Una verità amara, che chiunque abbia avuto rapporti con il carcere ed i suoi abitanti, per qualsiasi motivo, non può che condividere.
Mattone ricostruisce l’omicidio di Salvia attraverso atti processuali, testimonianze, documenti d’archivio, per gran parte inedita, verbali di interrogatorio, articoli di giornale e rapporti delle guardie carcerarie. Cinquecento pagine per la cui stesura ha impiegato cinque anni. Cinquecento pagine terribili, crudeli ed avvincenti, a metà tra un romanzo ed un saggio documentale. Nei ringraziamenti, riserva una voce alla famiglia di Salvia.
“Un senso di gratitudine a Giuseppina, Antonino e Claudio Salvia, che mi hanno dato l’opportunità di approfondire la conoscenza di un uomo semplice e onesto, che con rettitudine e fermezza ha affrontato l’arroganza del più grande criminale della storia repubblicana italiana”.
Quel criminale, Cutolo, decise che Salvia doveva morire. Ma Mattone fa rivivere Salvia raccontandoci la verità sul suo assassinio. È compito di ognuno di noi, adesso, conservare la memoria dei fatti.