Italia-Spagna somiglia a noi, è nazional-popolare. I nerd possono attendere. Mancini ha portato la Nazionale oltre i propri confini ma non l’ha snaturata
Il carattere di una nazione non si cambia. Non si cambia in generale, sarebbe un processo lungo che richiederebbe consapevolezza, determinazione e molto altro. Di certo non si cambia per il calcio. Italia-Spagna è stata la grande, ennesima, rivincita di Gianni Brera, come ha ricordato Fabrizio d’Esposito. È stata la certificazione, anche questa ennesima, che il Dna non è un trasferello. È importante, è educativo, esplorare nuovi confini, mettersi in gioco. Ma poi, quando arrivi al dunque, emerge il carattere ancestrale. Giochi e ti comporti come hai sempre fatto. Storicamente. Non a caso uno dei proverbi più noti recita “Impara l’arte e mettila da parte”.
Oggi l’Italia si è svegliata in due modalità. La modalità di chi ha la bocca piena, di chi ha assaporato fino in fondo 120 minuti e passa di calcio in cui siamo stati messi sotto dagli spagnoli, alle corde secondo i contemporanei parametri di analisi del calcio. Alla fine, però, abbiamo vinto noi. Evidenziando ancora una volta che le statistiche sul possesso palla contano quanto le previsioni del tempo ai tempi del colonnello Bernacca. È stata una partita che ha ricordato l’epica semifinale del 2000 con l’Olanda, lì addirittura gli orange sbagliarono due rigori e giocammo in dieci due terzi di partita. Per lo stesso motivo, uguale e contrario, c’è chi stamattina ha storto il naso. Perché, alla resa dei conti, come ha scritto L’Equipe e come ha sottolineato in maniera sprezzante Lineker, siamo tornati i soliti italiani. Quelli di cui, peraltro, hanno tutti paura. Perché siamo maledettamente impicciosi. Giochiamo sporco, ci arrocchiamo, facciamo qualche sceneggiata, ma acchiappiamo il topo. Deng Xiao Ping sorriderebbe compiaciuto.
Da qui, sia chiaro, non facciamo discendere l’elogio dell’essere italiani. Sono tanti gli aspetti extracalcistici che vorremmo cambiare, in cui l’essere italiani ci sta stretti e ci soffoca. Ma tant’è. Tra l’amore per il posto fisso, la raccomandazione, la corruzione cronica, la passione per il mattone, la genetica idiosincrasia per la meritocrazia (e tanto, tantissimo altro), c’è però un anche un modo efficace di interpretare il calcio. E questo ce lo teniamo. Rinunciarvi sarebbe autolesionismo.
Negli ultimi dieci-quindici anni, il calcio è diventato altro. Siamo passati dall’espulsione prevista solo per l’omicidio (Schuster dixit) a un regolamento che si è avvicinato a quello del basket, con espulsioni e rigori che un tempo non sarebbero state nemmeno azioni fallose. E, soprattutto, il calcio ha avviato una sorprendente marcia di avvicinamento ai cosiddetti sport di figura. L’obiettivo non è più buttare quella fottuta palla oltre la linea di porta – non diciamo Rollerball ma ci siamo capiti -. No, l’obiettivo è la figura, l’esecuzione, come se fosse la ginnastica artistica o i tuffi. Il pallone a due tocchi, l’uscita da dietro (la salida lavolpiana), i passaggi a centrocampo, il possesso palla e quel che ben sappiamo. Nelle scuole calcio dei bambini c’è chi sgrida per il dribbling, perché così si rompono gli schemi.
Questa visione del calcio ha rimpiazzato la crisi delle ideologie politiche. Il nuovo Che Guevara è Pep Guardiola, i suoi proseliti italiani sono Sarri e De Zerbi. Carlo Marx è ovviamente Arrigo Sacchi. Non è più importante vincere, ma come si vince. Sono spuntate le frasi del tipo “la mia idea di calcio”. Gli allenatori non sono più persone che hanno scelto un determinato lavoro, onesto e rispettabile ma di certo non intellettuale. Oggi sono guru, mostrano la via, nuovi Diogene che però la verità l’hanno bella che trovata (secondo loro) e diffondono il verbo. Il risultato sono da un lato masse adoranti che guardano quasi disgustate al risultato (roba per poveracci) e dall’altro masse annoiate che sbuffano, alzano gli occhi al cielo e che bevono di gusto un bel bicchiere di whisky (alla faccia degli altri) quando Donnarumma rinvia lungo, due tocchi e si va in porta.
Roberto Mancini sta mostrando la terza via. Il Giddens del pallone. Fa il blairiano, allarga i confini, giustamente ritiene che più qualità hai in campo e meglio è. Però saggiamente si ferma ai confini della costruzione da dietro. “Vuoi scambiare Bonucci e Chiellini per due che sanno giocare con i piedi?”. Sì sì, scambiali tu, tengo il mio Dash. E ancora: “Vuoi scambiare un portiere che volgarmente con quelle manone le para tutte con uno che però hai piedi come Gianni Rivera?”. Blairiano sì, fesso no.
Mancini ha portato il calcio italiano più in là. Ma senza snaturarlo. “Siamo italiani, non possiamo diventare spagnoli” ha detto l’altro giorno. Sapeva come sarebbe andata la partita. Non ha mai perso di vista l’obiettivo che è sempre quello di segnare un gol in più dell’avversario. Quando il numero di passaggi o la percentuale di possesso palla farà punteggio – potrebbe persino accadere con questa sconsiderata politica del calcio attuale – ne riparleremo.
Italia-Spagna entra nella storia del calcio italiano. Sono le nostre partite. Le partite in cui emerge il carattere nazionale. In memoria di Raffaella Carrà, possiamo anche definirle partite nazional-popolari (il riferimento era per Pippo Baudo, ma può andar bene lo stesso anche se Raffa era anche molto altro). Italia-Spagna non è partita per nerd. Il calcio non è uno sport per nerd. Speriamo che non lo sarà mai. Almeno in Italia.