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Jorginho brasiliano cresciuto a Verona e consacratosi a Londra. La cittadinanza è il passato

L’Europeo è di chi ha creduto nell’Europa. La fascia arcobaleno di Neuer ci dice che solo la lotta per i diritti altrui acquista senso

Jorginho brasiliano cresciuto a Verona e consacratosi a Londra. La cittadinanza è il passato
Mg Londra (Inghilterra) 06/07/2021 - Euro 2020 / Italia-Spagna / foto Matteo Gribaudi/Image Sport nella foto: esultanza gol Jorginho

Consentiteci di dire – a noi, gente nata in Europa e ivi sparsa – che il campionato europeo è il torneo che sentiamo più intimamente vicino. La Champions è sensuale e seduttrice, violentemente passionale. Il Mondiale è mirabile e vasto. L’Europeo è la voce del continente più di qualunque suo fondo di solidarietà. L’Europeo lo viviamo come nostro.

È il torneo in cui le nazioni si stanno dissolvendo, in anticipo sui tempi inutilmente biblici della politica ed in barba ai sovranisti poverelli. Non esiste più alcun calcio nazionale, manca la firma su un qualunque colore di maglia. I localisti nelle redazioni si danno man forte a vicenda nello scorgere un minimo di passato nel gioco, esultando quando pare che l’Italia sia tornata alle celebri origini abbracciando il catenaccio. Illusi. Non c’è gioco all’italiana. Neppure c’è gioco spagnolo, o inglese, o portoghese o danese. Ci sono lievi riverberi, echi di un mondo dissolto. Dissolto è persino il guardiolismo. Il calcio nazionale azzurro ha il suo cuore in un giocatore dal cognome per nulla italiano, cresciuto a Verona e consacratosi a Londra dopo un intenso passaggio mediterraneo. Far derivare il calcio dalla cittadinanza è come continuare a ritenere che, tutto sommato, non sia da scartare l’ipotesi che sia il sole a girare attorno alla terra.

Così come finisce il calcio nazionale moriranno anche i privilegi riconosciuti solo ai famosi “nativi”. Ci sarà un giorno, forse ancora lontano, in cui i nostri figli, o i loro figli, avranno un solo passaporto europeo, Montecitorio e Bundestag saranno interessanti mete di visite d’istruzione scolastiche; il calcio è già in parte in quel luogo. A chi ha occhi per vedere, mostra come sarà domani. Neuer perde e indossa come vessillo al braccio la bandiera arcobaleno, la cittadinanza svanisce e solo la lotta per i diritti altrui acquista senso. La nazionale inglese si inginocchia per gridare contro un’ingiustizia profonda e globale e diventa, per la prima volta da quando ho memoria, simpatica.

Il nostro europeo – permettetecelo – è di chi nell’Europa ci ha creduto e ci crede. Le chat incrociate con gli amici e colleghi di Tel Avi prima dei rigori ed il loro tipico umorismo cinico e irresistibile; il messaggio dell’amico russo, che durante una vacanza croata ascolta la telecronaca della ARD tedesca, il collega polacco che scommette sull’errore del povero Morata, cechi e slovacchi ormai disillusi ma in attesa, l’amico macedone con il quale condividevamo Elmas, l’ufficio danese oggi largamente in ferie, ucraini rasserenati dall’uscita dei filo-putiniani e tutti generalmente soddisfatti di vedere Orban fuori dai giochi.

È tutto politica. Di questi tempi, forse, la politica è, del calcio, un discendente più o meno diretto.

L’Europeo è il torneo di un pezzo di mondo da lungo tempo decadente che, come ogni luogo in dissoluzione, si decompone fondendosi. E nell’assimilarsi, mentre le frontiere brulicano di nuovi controlli incrociati in nome del virus e delle sue innominabili varianti, lancia scintille di futuro.

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