È stato per molti anni una avanguardia culturale in una città di istituzioni atavicamente impotenti. Ma non c’è mai stato alcun disegno. Per un’analisi della sconfitta, servirebbe riconoscere la sconfitta
Aspettarsi una analisi della sconfitta è, più che un auspicio, un atto di speranza che verrà disattesa. Un comprensibile forzare la realtà alle proprie interpretazioni che verrà frustrato.
Per discutere di una sconfitta bisogna anzitutto riconoscerla e Aurelio De Laurentiis non pare vederne alcuna nel suo passato recente, poiché per sentire di aver perso qualcosa è necessario muoversi in una rete di concetti rigorosi, in un contesto di partite doppie, deduzioni e principi razionali che mai sono stati il terreno su cui si è mosso il presidente del Napoli degli ultimi decenni.
Molti lo hanno volgarmente degradato, nei propri giudizi, a ignorante del calcio. De Laurentiis, piuttosto, è un presidente che di calcio non ha mai vissuto e lo ha attraversato con mente avulsa, altrove, in un pensiero sempre lontano da tutto ciò che compone questo gioco. La sua è una follia quasi nobile e quando egli si definisce guerriero cavalleresco da torneo le sue parole vanno prese sul serio.
È difficile credere che De Laurentiis abbia mai sentito su di sé il peso o la leggerezza di sconfitta e vittoria. Poco ha potuto su di lui finanche lo scudetto perso in albergo, ancor meno i trenta e rotti goal del Gonzalo. Il legittimo padrone del Calcio Napoli non ha mai mostrato alcuna propensione all’interesse tutto sommato spicciolo del gioco – il modulo, questo o quel regista, la linea di difesa. Ne ha parlato pochissimo e mai con il benché minimo desiderio di entrare nell’agone. L’ignoranza che la bassa invidia della gente gli ha rimproverato bollandolo come parvenu è stata in realtà la sua forza, il distacco sostanziale verso un mondo per il quale non ha affinità ma cui semplicemente dà voce con la stessa consapevolezza che doveva avere una menade nell’antica Grecia.
Il caso, dunque – o la Necessità, per rimanere in tema – hanno deciso che il cammino da lui iniziato andasse nella direzione auspicata da questo giornale, rendendo a mio avviso De Laurentiis, se non il migliore presidente del Napoli, di sicuro il più intrigante: la storia di un uomo che ha rappresentato una avanguardia culturale per molti anni in una città di istituzioni atavicamente impotenti.
Chiedergli l’analisi della sconfitta oggi è come chiedere ad un seguace di Dioniso di fare un progetto quinquennale e queste domande che si ripetono con una certa ottusità – le infrastrutture, la scugnizzeria, l’assetto societario – inducono solo un sorriso. Il Napoli di De Laurentiis è stato. E può essere solo di uno, solo suo. I racconti si sono intrecciati, la storia ha trovato una inerzia favorevole a raccontare altro, un vento inatteso ha dato largo a qualche nave in secca ed è stato esaltante chiedersi chi siamo e perché siamo costretti a essere chi nasciamo. Non c’era alcun disegno sotteso: Benitez non fu chiamato per europeizzare, Ancelotti non fu contattato per modernizzare né fu abbandonato per tornare al sarrismo. De Laurentiis non è né sarrita né calvinista, né neo-borbonico né internazionalista: è una voce che ha rombato per un decennio e cui ciascuno di noi può dire grazie sentendosi fortunato. Il De Laurentiis razionale, il suo lato apollineo è in Filmauro. A guardare i risultati, a noi è toccato il lato migliore.
Non chiediamogli ciò che non può dare.