Un reportage del 2009 a Torre Annunziata con l’attore scomparso.«Uno di quei bambini mi ha detto: “Chillo strunz ‘e Giancarlo Siani ha fatto arrestare mio zio”
Riproponiamo il reportage del marzo 2009 da Torre Annunziata con Libero De Rienzo che Fabrizio d’Esposito scrisse per il settimanale A. Le foto di quel servizio (che non è quella pubblicata) furono di Antonio Zambardino.
Torre Annunziata (Napoli). C’è il sole a mezzogiorno e sul cratere del Vesuvio resistono ancora due chiazze bianche di neve. La costa è devastata dai ruderi dell’archeologia industriale. Di fronte l’arco del golfo di Napoli sembra chiudersi tra le sue due estremità. A sinistra, Capri e la penisola sorrentina. A destra, Ischia e capo Miseno. La sabbia della spiaggia è nera come il vulcano. A pochi metri dalla riva, un fantino allena il suo cavallo da trotto nell’acqua. Si chiama “Icaro Boss”, il cavallo. Il panorama è una vista sul paradiso, l’arenile è una bolgia infernale. E’ invaso da rifiuti di ogni genere: sacchi neri di spazzatura, palloni Supersantos bucati, bottiglie di vetro e di plastica, pneumatici, bidoni blu e rossi, tronchi d’albero, scarpe spaiate, confezioni di vino in busta, secchi bianchi, cassette per la frutta, siringhe, mobili rotti, canne di bambù, reti piene di vongole e cozze coi gusci scoloriti dal sole, persino blocchi informi di colore giallo. È poliuretano espanso, un isolante termico.
Torre Annunziata, a venti chilometri da Napoli. Giancarlo Siani la descrisse come un “Forte Apache” assediato dalla camorra e dai politici collusi coi clan. Siani era un giornalista abusivo del Mattino, il principale quotidiano della Campania. Lavorava a Torre Annunziata e fu ucciso sotto casa sua a Napoli, al Vomero, la sera del 23 settembre 1985. Morì a ventisei anni per un articolo di cronaca scritto all’inizio dell’estate, a giugno. Aveva raccontato che il boss di Torre, Valentino Gionta, era finito in manette a causa di una soffiata dei suoi alleati di Marano, i fratelli Nuvoletta. La camorra, con la benedizione della mafia vincente di Totò Riina, non tollerò l’insinuazione e incaricò un gruppo di fuoco di far fuori Siani. Oggi “Forte Apache”, metafora western, è diventato un film con il titolo storpiato dal dialetto napoletano: “Fortapàsc”. Il regista è Marco Risi, che lo ha dedicato al padre Dino. Alla sceneggiatura hanno collaborato Jim Carrington e Andrea Purgatori. Il ruolo di Siani è interpretato dal trentenne Libero De Rienzo, napoletano di nascita che vive a Roma. Suo zio è il musicista Gigi De Rienzo: da bambino a cantargli la ninnananna si alternavano Pino Daniele, James Senese, Tony Esposito, Tullio De Piscopo e Teresa De Sio.
Su questa spiaggia piena di monnezza, De Rienzo ha girato una delle scene più significative del film. È quando il suo caporedattore cinico e rassegnato allo stesso tempo gli dice: «Giancà, le notizie sono rotture di cazzo, lo vuoi capire?». Adesso che ci è tornato, c’è “Icaro Boss” col suo fantino. Libero, che familiari e amici chiamano “Picchio”, chiede all’uomo di fare un giro. Gli dice che è un attore, ma per prudenza non rivela quale film ha fatto. Spiega De Rienzo: «Durante le riprese c’erano sempre dei ragazzini che arrivavano sul set e urlavano: “Giancarlo Siani pum-pum”. Un giorno, uno di loro mi ha detto: “Chillo strunz ‘e Giancarlo Siani ha fatto arrestare mio zio”. Lo zio, infatti, faceva parte del commando di sicari che eseguì l’omicidio. Ma la cosa che mi ha impressionato di più è stata un’altra». Continua l’attore: «Una bambina di quattro anni scambiando la macchina da presa per una telecamera si è coperta istintivamente la faccia per non farsi vedere».
Ai tempi di Siani, la camorra che comandava era quella della provincia. Da Raffaele Cutolo a Nuvoletta e Gionta e i loro avversari Alfieri e Bardellino. Nel 1980 c’era stato il terremoto e i clan diventarono ricchi con gli appalti della ricostruzione. Alla politica andavano tangenti e voti. Nel film, il sindaco all’epoca socialista di Torre Annunziata ha la faccia di Ennio Fantastichini. Oggi a dettare legge sono le cosche della città e i soldi si fanno con la droga e le discariche dei rifiuti. Oro bianco e oro nero. Il nuovo “Forte Apache” è Scampia, dove il territorio è conteso dai Di Lauro e dagli “scissionisti” traditori. Sul display del cellulare, i ragazzini hanno la foto del giovane boss Cosimo Di Lauro al momento dell’arresto: giubbotto di pelle nera e jeans, capelli lunghi e sguardo di ghiaccio.
Si è fatto pomeriggio e si ritorna a Napoli. È il giorno dopo che un’altra ferita feroce ha dilaniato la città: un bambino di dodici anni violentato e seviziato con un manico di scopa da un impiegato comunale già accusato in passato di pedofilia. Dice De Rienzo: «È orrendo ammetterlo, ma qui c’è una brutalità somatica. Lombroso non c’entra nulla però. Certe espressioni se durano settimane, mesi, anni, alla fine ti cambiano il volto. Io sono comunista ma con Bassolino mi sono dovuto arrendere all’evidenza. Ho sofferto molto. Il problema prima che politico è culturale. L’ignoranza favorisce camorra e violenza. Qui hai due alternative: o scappi oppure vivi in un quartiere blindato». Poi c’è il senso d’impotenza. Racconta ancora l’attore: «Prima del film, per un mese ho girato in incognito per imparare il dialetto e capire questa realtà. Un giorno ero diretto in auto a Scampia e a un semaforo c’era una gazzella dei carabinieri. Poi è arrivata una moto. A bordo c’erano due uomini. Uno di loro aveva ben visibile, infilata nei pantaloni, una Beretta calibro 9 parabellum. Hanno sorriso e quando è scattato il verde sono andati via. I carabinieri si sono accostati alla mia auto. Gli ho detto: “Perché non avete invece fermato quei due? Avete visto anche voi che tenevano un ferro (vuol dire pistola nel gergo criminale, ndr). I carabinieri mi hanno risposto: “Noi qui ci dobbiamo vivere”».
Ieri la camorra descritta da Siani, oggi la “Gomorra” di Roberto Saviano. Conclude De Rienzo: «Giancarlo faceva il suo dovere di cronista ed era un ragazzo normale, allegro e gioviale. Forse non immaginava di poter morire per il suo lavoro. Per vent’anni è stato dimenticato e noi adesso gli abbiamo restituito la voce. Saviano è più consapevole del suo ruolo». A scuola, Siani aveva vissuto il movimento del Settantasette ed era un convinto pacifista. Contro la guerra, nel mondo come a Napoli. Perché anche la lotta alla camorra è una guerra, in cui lo Stato non vince spesso. Nel film lo dice a Siani un capitano dell’Arma suo amico: «Questi fanno la guerra, noi prendiamo solo i morti».