Un reportage narrativo che nasconde la geografia sentimentale, politica e professionale dell’autore. Precisi i riferimenti storico-antropologici

Sembra la reincarnazione, post-postmoderna, di Mario Soldati il nuovo Andrea Di Consoli di “Tutte queste voci che mi premono dentro (pagg, 152, euro 13; Editoriale Scientifica)” nella collana “S-Confini” dell’attento collega Fabrizio Coscia. Reportages narrativi che più vari ed eterogenei non si possono trovare: sì va dai suoi girovagare nell’Italia interna: Pollino, Valle del Sarmento e si finisce a vicende marginali come quella del delitto della cantante veneta Lolita nella Lamezia Terme del 1986. In realtà questi pezzi da feuilleton nascondono, al di là del merito, una geografia sentimentale, politica e professionale dello stesso Di Consoli.
“Già allora infatti preferivo la vita privata, i destini individuali, i sentimenti più reali e intimi delle persone” dice l’autore ai margini de “I fatti di Genova, una donna più grande, un albergo di Rapallo” storia della sua venuta al G8 di vent’anni fa più per una storia di sesso con una donna che per ideologia. Di Consoli infatti è umanamente un ipocondriaco e tabagista che ama il suo prossimo in maniera sanguigna e carnale, ma è un libertario-anarchico e socialista per militanza giornalistico-letteraria.
Scorrono i suoi rapporti con i suoi riferimenti universitari (Walter Pedullà), poetici (Vito Riviello) e di Via Teulada (il suo secondo padre Franco Scaglia). Pur rimanendo con l’anima a Rotonda e nel suo Sud che scollina per la Calabria a Campotenese, Di Consoli ha aperto quel cerchio chiuso e familistico della sua famiglia di origine operaio-contadina e si è emancipato dal fatalismo della sua terra. Che si occupi della storia delle anime sofferenti del Manicomio di Aversa per darle Luce o degli scrittori tabagisti e dei loro destini nel supremum exitus, lo scrittore lucano di stanza a Roma – ma con i piedi ben piantati nella Napoli letteraria – ci mostra degli aspetti inediti del nostro Sud derivanti dal suo sguardo diverso: di uno che crede alla risurrezione dei corpi per potere rivedere gli amici ma che non è mai stato toccato da confessionalità di potere. Ma il suo individualismo che crede nel libero mercato è avulso da riserve mentali e quindi lo ritroviamo a San Giovanni Rotondo a confrontarsi con il visionario Padre Pio che insieme a San Gennaro ed all’escusso – in questo libro – San Francesco Di Paola, sono i veri protettori religiosi del Sud. Così come il colorato Pollino, il Cilento e la Sila sono le montagne del nostro Appennino che ci proteggono da una visione del Sud troppo costiera e non veritiera.
Poi c’è la lingua – la lingua letteraria di Di Consoli – che è saporita ma insieme veloce, precisa nei riferimenti storico-antropologici, ma che resta sul nostro palato letterario come un amaro calabrese forte e speziato.