A La Stampa l’atleta oro nei 100 metri e nella 4×100 ai Giochi di Sydney 2000: «I pochi affiliati al circolo degli eletti protegge l’esclusività. Ci sentiamo membri di una particolare élite, si diventa territoriali».
La Stampa intervista Maurice Green, oro nei 100 metri e nella 4×100 ai Giochi di Sydney 2000. Parla di Jacobs e delle accuse all’atleta da parte di America e Inghilterra.
«Funziona così, non ci sono tante nazioni che si distinguono nello sprint e chi sta dentro, i pochi affiliati al circolo degli eletti protegge l’esclusività. Ci sentiamo membri di una particolare élite, c’è chi non si turba perché si allarga il giro e chi si sente più importante se gli altri stanno fuori. La velocità mangia il cervello. Brucia, inebria, fa sentire miti, si diventa territoriali. Noi americani abbiamo a lungo pensato di essere i padroni del settore e lo siamo stati, gli inglesi hanno una loro tradizione, poi l’ondata giamaicana, tracce di Caraibi, in generale un universo anglosassone. Mentre l’atletica è un confronto apertissimo, lo sprint vive di supremazie e chi rompe gli equilibri è visto come minimo con sospetto».
Che cosa è successo agli americani dello sprint?
«Sono Olimpiadi anomale. Non voglio certo diminuire il valore di chi ha vinto i titoli con grande merito ma magari a chi non è abituato alla ribalta lo stadio senza pubblico regala concentrazione e chi invece aspettava la scarica di adrenalina si è trovato disorientato. Non è un caso che tanti campioni abbiano fatto fatica».
Gli sprinter sono cambiati?
«No, sono come erano quando io ero in pista, è cambiata la cura del corpo, l’attenzione al sonno e al cibo. Oggi un velocista può durare di più anche se ha meno concorrenza. Ogni anno un paio di ragazzi vanno veloce e gli altri meno, vediamo se l’Italia riesce a tenere questo livello».