Alla Gazzetta: «Mi prendono in giro perché faccio il tuffo all’arrivo. Sette anni fa caddi e mi fratturai le braccia. Tamberi? E’ un esempio».
Filippo Tortu ha vinto la medaglia d’oro nella staffetta 4×100 con Jacobs, Patta e Desalu. Ha emozionato tutti, è stato più veloce di Jacobs. Oggi la Gazzetta dello Sport lo intervista. Racconta la volata finale.
«L’ultima frazione è la più elettrizzante, ma anche la più carica di tensioni. Aspetti e speri che i compagni non facciano danni. Fino ai 50 sono rimasto lucido, da lì ho “mangiato” la pista. Ma cercando di restare rilassato».
Sulle fotocellule si è tuffato in avanti.
«Mi prendono in giro, perché lo faccio anche se non serve. In qualche occasione, nella foga, sono pure caduto. Come ai Giochi giovanili di Nanchino 2014, fratturandomi entrambe le braccia. Ma stavolta è stato decisivo. Il centesimo della vittoria è scaturito anche da lì».
E quel centesimo lo descrive. Dice che in quel centesimo c’è tutto.
«L’essenza dello sport: per tanto così si può vincere o perdere. Conta provarci sempre».
Dopo la vittoria, le lacrime. DI gioia, dice.
«Non c’è stato spazio per altro. Non volevo chiudere senza aver dimostrato il mio valore. Pensando che avrei corso l’ultimo rettilineo olimpico, mi sono convinto che avrei fatto la gara della vita. Ho fatto la mia parte, ma il merito è da dividere in quattro, anzi di più, ricordando chi era qui come riserva e chi, in questi anni, ha partecipato al progetto».
Il miracolo dell’atletica italiana si spiega col fatto che gli azzurri, durante il lockdown, sono stati tra i pochi ad allenarsi? Risponde:
«Un miracolo non si spiega. Ma è vero: io in quel periodo correvo in un parco dietro casa».
Chi ha sentito dall’Italia?
«I miei cari e Gimbo Tamberi, come alla vigilia: dopo il suo trionfo e il mio 100, pur avendo in testa tutt’altro, è stato un paio d’ore con me. È un esempio».