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“Dune” è uno spettacolo degli stati d’animo, la scommessa vinta di Villeneuve

Al cinema il film del regista canadese, che riprende la saga opera dello scrittore statunitense Frank Herbert 

“Dune” è uno spettacolo degli stati d’animo, la scommessa vinta di Villeneuve

Eravamo molto curiosi di vedere come un fuoriclasse come il regista canadese Denis Villeneuve avrebbe reso la saga di “Dune (1965)”, opera di un altro fuoriclasse come lo scrittore statunitense Frank Herbert che poi ne fece un mondo di sei volumi (nei reimanders si può trovare in cofanetto l’edizione dell’Editrice Nord del 1975).

La storia è nota: nel 10191 la Casata degli Atreides governa su Caladan, ma l’Imperatore decide che questa schiatta nobiliare deve svolgere il suo patronato sul pianeta delle Dune, Arrakis, dove soppianterà la Casa truffaldina degli Harkonnen: Dune è un pianeta fondamentale per gli equilibri geopolitici perché li si raccoglie una spezia che viene utilizzata dalla Gilda per i viaggi interspaziali. Il Duca Leto (Oscar Isaac) predispone il trasloco per la sua gens guerriera, ma non sa che suo figlio Paul (Timothée Hal Chalamet) avuto dalla sua concubina Lady Gessica (Rebecca Ferguson), un quindicenne che ha delle visioni, è stato sottoposto dalla veridica dell’Imperatore Gaius Helen Mohiam (Charlotte Rampling) ad un test che prova che il ragazzo potrebbe essere il Prescelto (Kwisatz Haderach). L’Imperatore infatti ha sotto di sé i vari Casati che sono i suoi fiduciari nel Governo della Galassia, mentre le Bene Gesserit della Mohian – Jessica ne fa parte – sono una confraternita di streghe che imponendo la loro ‘voce’ sono la cintura di trasmissione politica di tutto il sistema, completato dalla Gilda spaziale che tramite la spezia che si raccoglie su Arrakis garantisce gli spostamenti spaziali nella Galassia.

Villeneuve nel film fa quindi una scelta di campo: non potendo spiegare tutto il complesso sistema statuale e di popoli che sottende alla cosmogonia stellare, ne disegna un quadro generale e ne salva gli stati d’animo e mentali dei protagonisti – che mette al centro della narrazione -, e che il cast di grandissimo livello attoriale restituisce in un pathos che nel primo tempo del film è alto.

Gli intrecci di potere tra gli Harkonnen, le Bene Gesserit e le milizie dell’Imperatore su Arrakis sono sottotraccia ed il popolo indigeno del deserto di Arrakis – i Fremen – inventori di marchingegni tecnologici ed utilizzatori della spezia sacra costituiscono la variante impazzita.

In definitiva Villeneuve vince nell’arte filmica la sua scommessa di rendere drammaturgicamente l’universo di Dune, anche attraverso la ricostruzione digitale dei pianeti e della Casate. Il secondo tempo invero è molto lento e legato soprattutto ad un’action che tiene assieme battaglie e duello. Ma si intuisce che la legge ferrea della serialità – sembra che di Dune siano previsti due sequel – debba sacrificare qualcosa al suo fluire. Infatti se “i sogni nascono dal profondo’, per renderli in un film c’è bisogno di altri caratteri che non quelli di una lingua come quella di Herbert che faceva della ricerca dell’umano la vera finalità dell’opera in un tempo dove le macchine – e gli algoritmi? – erano contro l’Uomo.

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