Tutto questo mare di parole non salverà nessuno. Alla fine, sarà la frase non pronunciata, così come la foto non scattata ad essere il nodo gordiano
Quando frequentavo le scuole medie, ben prima che il bullismo diventasse giustamente un tema di cui discutere, un compagno di classe, meno prestante nel fisico rispetto agli altri, costantemente deriso dalla scolaresca per i soliti motivi che rendono i ragazzi tipicamente vigliacchi a quella età, adoperava come arma di riscatto sociale un astuto lasciapassare: il suo essere nipote di uno che aveva un amico che faceva il fotografo al San Paolo. O almeno così diceva. Il tipo in questione non si vide mai ma, per provarne l’esistenza con una certa cadenza, ogni tanto il compagno vessato lasciava ammirare sul suo banco qualche doppione di rullino o mezzo scarto di sviluppo in camera oscura, che consistevano in foto di Maradona non ammirate sui quotidiani. Celebrava così le sue ore di temporanea ed interessatissima amicizia fondata sulla promessa che un giorno, quell’amico dello zio, ci avrebbe fatto conoscere il numero dieci di persona. Rimase un sogno per tutta la durata della prima media. E poi svanì.
Qualche giorno fa mi sono accorto, rimirando il filmato del gol dell’argentino nell’ottobre del 1985 (minuto 4:08), con palla fiondata da centrocampo a spiovente sul povero portiere veronese, che uno dei fotografi a bordo campo, alle spalle della porta, durante l’esecuzione di questo miracolo balistico non scatta neppure una foto. Impugna la macchina tra le mani, segue la palla, muove testa e occhi sul portiere, poi su Maradona, di nuovo sul portiere. Sorride come investito da un torrente apocalittico e sovrannaturale, impossibilitato a fare il suo lavoro, in una sorta di blackout temporaneo. Mi ha anche sbalordito che, dopo decenni e alcune migliaia di visioni di questo spezzone, mi sia accorto del fotografo non fotografante solo oggi e ho immaginato che egli potesse essere l’amico dello zio del mio compagno di classe, inconsapevole messaggero di un po’ di ristoro, un briciolo di libertà tratto dalla mensa dei semidei per il piccolo nipote.
E poi, assieme a quel pallone, mi sono piovute in testa un paio di considerazioni.
Una è l’incompatibilità tra punto di vista e contemplazione del sublime: la scalata verso l’osservazione della bellezza è essenzialmente personale e solitaria ed avviene in larga parte in silenzio – si lavora ad acquisire i mezzi per riconoscere quanto è meraviglioso come si scala una vetta alpina e, quando si ritiene di avercelo di fronte, in cima, si sta fermi e zitti. La prospettiva sulle cose, invece, richiede confronto sociale e volontà, si concretizza in un’opinione. Obiettivo puntato e meraviglia del gol da centrocampo sono due grandezze ortogonali tra di loro. Il fotografo deve scegliere se immobilizzarsi dinanzi a questa onda trascendentale che viene dal sinistro di un nano o dare un taglio a quell’evento tramutandolo in una cronaca. Chissà se la sua mente ha avuto il tempo di rifletterci. Probabilmente no, perché, una volta allenati a riconoscere la bellezza, essa irrompe e distrugge la nostra volontà. Accade all’improvviso, come un calcio da cinquanta metri, e ci aliena.
L’altro aspetto è la caratterizzazione del punto di vista. Il mio compagno di scuola era un debole, un oppresso dalla microsocietà cui apparteneva. Non seguiva granché il calcio e neppure tifava per il Napoli. Era un ragazzino infelice, con buona pace dei sostenitori del meraviglioso mondo dei più piccoli. Lui quella opinione, l’occhio vigile e lo scatto pronto del fotografo amico del remoto zio, la pretendeva per soddisfare il naturale desiderio di sentirsi qualcuno. La vita, specie da ragazzini, è piena di buoni consigli di adulti che ti ripetono che “sei speciale”, “devi stare bene con te stesso”, “devi fare le cose per te e non per gli altri”. Ci vuole molto tempo per acquisire la libertà di capire che sono tutte balle. L’uomo è formato sul rapporto sociale: cerca consenso dai suoi simili. Osserva, imita, richiede di essere accudito. Quando tutto ciò manca e si finisce in questo affanno che presagisce al dolore del proprio disagio, allora l’opinione è salvifica: ti redime la foto del campione, l’opinione contrastante, il commento fuori dal coro. “Io ho le foto” era il grido di sopravvivenza del mio compagno. A discapito, va detto, della bellezza.
Certo la riflessione va presa con la dovuta cautela. Il mondo ha avuto e avrà bisogno di fotografi, così come di critici, di commentatori, di discussioni. Ma non fa male ricordare che tutto questo mare di parole non salverà realmente nessuno. Alla fine, sarà la frase non pronunciata, così come la foto non scattata (o la partita non vista, per usare il lessico del nostro Montieri) ad essere il nodo gordiano. Si impara una vita intera a regolare esposizione e tempo e questo allenamento costante e faticoso servirà a capire quando di essi vi è assenza. Studiare quotidianamente per apprezzare, in pochi secondi, quanto manca – un pallone che spiove, un portiere come un tonno appena finito in una rete, il tripudio. E tu stai zitto. La meraviglia di non sapere cosa dire. I tuoi compagni di classe che domani renderanno di nuovo la tua vita impossibile.