Adriano Sofri arrivò a parlare di “eredità nobile” nel rapporto che intercorre fra il pallone e la poesia. Si può essere poeti e calciatori, come Ezio Vendrame
C’è una magnifica fotografia che immortala Pier Paolo Pasolini mentre gioca a calcio: concentratissimo, gli occhi fissi su un pallone di quelli con i pentagoni neri che sembra in procinto di accarezzare con il sinistro per, come si dice oggi, “entrare nel campo” partendo dalla fascia. Pasolini era una bravissima ala, molto tecnica, con un unico difetto: rosicava quando perdeva. In un’intervista a Enzo Biagi ebbe a dire che per lui il football era la passione più grande, dopo la letteratura e l’eros. Ed era vero: fra le altre cose, fu lui a fondare la Nazionale Attori e Cantanti.
Credo che, come tutti i fenomeni sociali, il calcio si sia guadagnato un posto di tutto rispetto nella classifica di quelli in grado di spiegare gli esseri umani e le relazioni fra di essi. D’altra parte Nick Hornby, che a mio avviso ha scritto capolavori assoluti della narrativa (Alta fedeltà, About a boy) è ricordato soprattutto per Febbre a 90: un libro secondo me qualitativamente minore ma che, raccontando nel suo arco temporale una stagione dell’Arsenal vissuta dentro il vecchio Highbury, è in grado di solleticare le corde di un universo di lettori che finiscono inevitabilmente per identificarsi con il protagonista, eccezion fatta per il colore della maglietta. E cosa dovremmo dire, poi, del Sudamerica, dove il calcio è religione? Da Galeano in giù, il pallone può essere considerato un genere letterario a sé. Anche in Italia abbiamo un’ottima tradizione capace di elevare a letteratura quel che accade sul terreno di gioco: penso a Brera, a Gianni Mura. A Napoli abbiamo avuto un grande Pacileo. Circoscrivendo la questione al romanzo, mi viene in mente il bravissimo Marco Marsullo, giovane e anch’egli napoletano. E tutti (spero) abbiamo letto da bambini le poesie di Saba dedicate a questo sport.
Per questo ho sempre rigettato l’idea che il calcio fosse una passione da nascondere, come se dovessimo vergognarci. Si può essere poeti e calciatori (te lo ricordi Ezio Vendrame?). Puoi essere letterato e ala sinistra, portiere e direttore d’orchestra. Poi possiamo parlare finché si vuole della geografia delle curve, ma sarebbe sbagliato far di tutta l’erba un fascio. Sì, ci sono i razzisti, gli stupidi e gli ignoranti. I delinquenti e i faccendieri. Il fatto è che puoi trovarli allo stadio come in ufficio, o al bar, o nella chat dei genitori per chi ha figli studenti. Semmai, l’unica voce a fattor comune è il senso di appartenenza, in nome del quale si sacrificano la propria identità – e a volte anche la propria dignità – perché l’altro tifa per una squadra diversa dalla nostra. Ma questo, tu mi insegni, è tuttora diretta emanazione dell’Età dei Comuni: un campanilismo pedatorio ancora più spinto di quando ci si ammazzava solo fra Guelfi e Ghibellini. A proposito: sono convinto che, se vivesse oggi, potremmo trovare Dante impegnato a sgolarsi per la Viola in curva Fiesole. Sicuramente gli striscioni avrebbero rime migliori…