È un concetto che esiste dall’Olanda del calcio totale. Riportato al successo da Sacchi, Guardiola, Klopp. È la riaggressione, la pressione sugli avversari che hanno appena conquistato palla
È davvero forza tranquilla
Napoli-Bologna 3-0 è stata una partita limpida come l’acqua, cioè facile da decrittare. Ci sono le parole di Massimiliano Gallo nel suo articolo a caldo nel postpartita, quelle di Domenichini nelle interviste. E poi, ovviamente, ciò che è accaduto in campo, le sensazioni trasmesse dalla squadra di Spalletti. Ecco, tutto questo riconduce a due concetti semplici: forza e tranquillità. Poi c’è la meravigliosa vastità del vocabolario, che permette di declinare ciò che si è visto con parole diverse – gestione, consapevolezza, maturità, e chissà quante altre. Ma sono sinonimi, e utilizzarli è puro esercizio di stile. La sostanza non cambia: il Napoli ha battuto il Bologna grazie alla sua forza e alla sua tranquillità. E qui, ora, cercheremo di spiegare come e quando e attraverso cosa si sono manifestate questa forza e questa tranquillità.
Tutto comincia dall’inizio, ovvero dalle scelte di Spalletti per la formazione titolare. Stesso schieramento (4-3-3/4-2-3-1 fluido in fase offensiva, 4-5-1 in fase difensiva) e stessi giocatori, solo con Elmas e Lozano al posto di Zielinski e Politano. Questa è già un’indicazione significativa: il cambio di due uomini – e quindi anche di movimenti e meccanismi, dato che il Napoli è una squadra offensivamente liquida – non inficia più il rendimento, l’efficacia degli azzurri. Anzi, in realtà contro il Bologna l’inserimento di Elmas ha determinato un vantaggio tattico per il Napoli.
Il Bologna, infatti, avrà anche cambiato sistema di gioco (dal 4-2-3-1/4-5-1 al 3-4-2-1/5-4-1), eppure continua a schierare il doble pivote davanti alla difesa. Una situazione perfetta per un giocatore come Elmas, che quando viene schierato come sottopunta si muove moltissimo, cerca sempre lo spazio migliore per ricevere palla tra le linee. Questa volta l’ha trovato a sinistra, determinando il gioco offensivo della sua squadra.
In alto, il 4-2-3-1 del Napoli con Fabián e Anguissa davanti alla difesa e con Elmas nello slot di sottopunta; sopra, tutti i palloni giocati dal macedone nel corso della partita contro il Bologna.
Il vantaggio acquisito dal Napoli con Elmas si è riverberato anche nella prestazione degli altri giocatori. Soprattutto quelli della catena di sinistra, nettamente la più utilizzata per costruire gioco da parte degli uomini di Spalletti. In questo senso, i dati sono eloquenti: secondo le rilevazioni di Whoscored, gli azzurri hanno costruito addirittura il 48% delle loro manovre dal lato di Insigne, Mário Rui ed Elmas; il terzino portoghese è il giocatore che ha toccato più palloni in campo (129) e Insigne ne ha toccati più del doppio (68) rispetto a Lozano (28) e Osimhen (27) – il messicano è uscito subito dopo di lui, il nigeriano è rimasto in campo fino al fischio finale.
Perché il Napoli è tornato a giocare in maniera piuttosto simile al passato? È tornata la dittatura del possesso palla e si è palesata di nuovo la tendenza ad accentrare tutte le responsabilità creative su Insigne e i suoi scudieri della fascia sinistra? No, semplicemente il Napoli ha capito che quello era la strada più utile ed efficace per fare male al Bologna. Per comandare la partita.
Tutto nasce dalle spaziature dei rossoblù, dalla loro lettura da parte di Spalletti e dei suoi uomini: se la squadra che difende ha tre difensori centrali, due mediani e due esterni a tutta fascia, solo una pressione tenuta costantemente alta può evitarle una situazione di inferiorità numerica sulle corsie esterne; al Bologna, dunque, sarebbe servito un atteggiamento più aggressivo da parte del braccetto destro della difesa a tre (De Silvestri) per poter evitare che il Napoli dominasse il possesso dalla sua parte. Solo che il Napoli, in avanti, ha Victor Osimhen. Ovvero un centravanti che tiene costantemente impegnati due difensori avversari. E che, se non li tiene impegnati, li tiene bassi, fermi, a presidiare una sua possibile incursione.
Osimhen tiene bassi due difensori nella fascia centrale del campo, Lozano (fuori inqudratura) è in agguato a destra; De Silvestri non va in pressione, perché non può essere accompagnato dai suoi compagni di reparto, e così il Napoli può fraseggiare con quattro uomini sulla sinistra. Perché il Bologna possa difendere in parità numerica, non può fare altro che far abbassare Orsolini e addirittura Barrow; nel frattempo, Insigne, Mário Rui, Fabián ed Elmas zampettano con tranquillità tenendo il pallone tra i piedi.
Considerando che ieri sera c’era anche Lozano, era inevitabile che tutti e tre i centrali schierati da Mihajlovic (il già citato De Silvestri, Medel e Theate) rimanessero piuttosto guardinghi. A quel punto, il gioco di possesso era – ed è stata – l’arma giusta per controllare la partita. Lo dicono i numeri: il Napoli ha fatto registrare il 65% di possesso palla grezzo, il 94% di precisione dei passaggi, 691 appoggi totali di cui 652 corti.
Non sfugga, però, che abbiamo parlato del possesso palla come un’arma per controllare la partita. Anzi, rilanciamo: il Napoli di Spalletti, ieri sera, si è riposato col pallone tra i piedi. Oppure, meglio ancora: il Napoli di Spalletti, ieri sera, si è difeso con il possesso palla. Certo, questa frase è una forzatura: è ovvio che nella stragrande maggioranza delle fasi di possesso della squadra azzurra erano finalizzate a costruire occasioni da gol. Allo stesso tempo, però, la strategia offensiva più pericolosa e anche più efficace è stata la riaggressione alta, la capacità di non far uscire il Bologna dalla trequarti campo difensiva, di recuperare il pallone in zona avanzata di campo e poi, solo dopo, decidere cosa farne.
Gegenpressing
È necessario fare una premessa, snocciolare una piccola nota metodologica: di cosa parliamo, esattamente, quando utilizziamo il termine “riaggressione”? Di un concetto tattico che, nel calcio, esiste da tantissimo tempo, più o meno dai tempi dell’Olanda del Calcio Totale. E che, nel corso degli anni, è stato (ri)portato al successo da Sacchi, Guardiola, Klopp. In soldoni: la riaggressione è un’azione di pressione intensa esercitata sugli avversari quando questi hanno appena recuperato il possesso del pallone. È il famoso gegenpressing tipico della scuola tedesca, che ne ha rielaborato una versione ipercinetica, elettrica, viene da dire isterica – a differenza di quella spagnola, non meno intensa ma meno esasperata a tutto campo.
Quattro giocatori in pochissimi metri quadri
Eccolo qui il gegenpressing del Napoli. Questo frame è stato catturato pochi istanti prima del passaggio sbagliato di Svanberg che poi porterà al (bellissimo) gol di Fabián Ruiz. In questo caso la pressione di molti giocatori del Napoli induce un calciatore del Bologna all’errore, ma vi garantiamo – e tra poco ve lo faremo anche vedere – che gli uomini di Spalletti hanno usato spessissimo questo meccanismo per poter conquistare palla in zona avanzata. In pratica, hanno usato il pressing come arma offensiva. Come regia delle manovre d’attacco.
È una grande novità rispetto al passato. Anche il Napoli di Gattuso era una squadra che cercava di praticare la riaggressione alta, ma era un tentativo più disorganico. Per un motivo su tutti: per quanto la fase di gegenpressing potesse essere aggressiva, l’idea di mantenere un baricentro difensivo non altissimo – se non addirittura basso, in alcune partite – determinava l’impossibilità di insistere su questo concetto. Il Napoli, insomma, non riusciva a essere compatto, finiva per allungarsi. Anche perché la volontà inscalfibile di costruire l’azione dal basso costringeva tutti i giocatori a rientrare nella propria metà campo a ogni azione, o quasi.
Contro il Bologna la difesa è stata costantemente alta e ambiziosa, ma anche il possesso palla è stato più vario. Come detto sopra, è stato sincopato e si è spostato sulla sinistra nei momenti di gestione dei ritmi e del flusso. Altrimenti, è stato rapido, veloce, verticale. E lo stesso discorso vale per le altre partite giocate di questa stagione contro squadre di medio-basso livello.
Tenere la difesa alta, una definizione
Come si vede chiaramente da questo screen, e da quelli precedenti, il Napoli visto contro il Bologna è una squadra che è riuscita a compattarsi in avanti. Che ha utilizzato Osimhem come apriscatole difensivo, per tenere gli avversari bassi, mentre tesseva la sua tela di controllo col possesso palla. E poi ha alzato i ritmi nel momento in cui aveva bisogno di farlo: quando c’era la possibilità di recuperare velocemente il pallone in avanti e di creare occasioni da gol davvero pericolose. Come detto, eravamo in debito di altre azioni di gegenpressing da parte della squadra di Spalletti. Eccole qui:
Sono azioni meno furiose rispetto a quella che ha determinato il gol di Fabián Ruiz, complice anche il risultato. Ma in tutte le sequenze che vedete sopra, il Napoli avanza, piuttosto che arretrare, dopo aver perso il possesso del pallone.
Contro il Bologna, il Napoli ha studiato il contesto, si è adattato e ha trovato le chiavi giuste per dominare la partita senza rischiare nulla. Anche in questo senso i dati sono eloquenti: la squadra di Mihajlovic ha messo insieme un totale di 6 conclusioni non respinte verso la porta di Ospina; tra queste, solo una è finita nello spazio delimitato dai pali: un calcio di punizione battuto da Orsolini al minuto 84′. Difficile pensare che una gara approcciata e gestita in maniera così impeccabile, così disinvolta, non sia stata preparata in allenamento da Luciano Spalletti.
La sensazione è che gli azzurri – di nuovo in nero versione Halloween – siano scesi in campo sapendo già tutto quello che avrebbero potuto e dovuto fare per poter comandare la partita. E per poterla vincere. Come abbiamo visto, si tratta di due concetti diversi, quindi da preparare diversamente: difendere col possesso e attaccare con il pressing, Sembra un ossimoro, e invece è la realtà di una squadra finalmente in grado di giocare in tanti modi diversi.
I singoli
Oltre al lavoro di Spalletti, che finora abbiamo celebrato tra le righe, vanno sottolineati anche altri aspetti. Innanzitutto, la crescita dei singoli giocatori. Che, ovviamente, è avvenuta perché finalmente il Napoli ha un tecnico in grado di guidare una rosa ibrida e – quindi, di conseguenza – far giocare i suoi uomini in maniera elastica, ma anche perché stanno rispondendo benissimo a questi stimoli. In questo senso, basti guardare la prestazione di due dei calciatori più bistrattati nel corso della scorsa stagione: Fabián Ruiz e Mário Rui.
Lo spagnolo, gol a parte, ha toccato tantissimi palloni (112) e ha mostrato ancora una volta come il concetto di regia calcistica sia completamente slegato dalla geografia del campo: si è fatto servire e ha alimentato il gioco praticamente ovunque, ha appoggiato costantemente l’azione offensiva e ha anche fatto vedere una buona attitudine al pressing (un contrasto vinto, un pallone spazzato e anche 3 falli fatti).
Il terzino portoghese, se possibile, è stato ancora più centrale nello sviluppo della manovra (129 palloni giocati sono un’infinità) e ha mostrato di poter essere multidimensionale e multitasking. Nel senso: non si è limitato solo alle sovrapposizioni esterne, ma spesso ha esplorato il mezzo spazio di centrosinistra, come se fosse una mezzala. In questo senso, l’immagine che vedrete sotto ha un significato enorme. Evidenzia come il nuovo sistema difensivo e le nuove varietà e consapevolezza in fase offensiva abbiano cambiato in meglio le prestazioni di Mário Rui, esaltando i suoi pregi, nascondendo i suoi difetti.
In alto, tutti i palloni toccati da Fabián Ruiz; sopra, tutti i palloni giocati da Mário Rui.
Conclusioni
Quando l’anno scorso, in questo spazio, auspicavamo che il Napoli diventasse una squadra più mutevole e varia nella sua proposta di gioco, pensavamo a un Napoli che fosse in grado di scegliere il vestito da indossare in ogni partita, a seconda delle contingenze. La massima aspirazione, per dire, era che la squadra di Osimhen – un attaccante verticale, da sfruttare in campo aperto – potesse comandare una partita col possesso palla, quando e qualora sarebbe servito. Ed è proprio quello che abbiamo visto contro il Bologna. Allo stesso modo, avremmo voluto che il Napoli fosse una squadra in grado di giocare in verticale contro avversari che tengono la difesa alta, con o senza Osimhen in campo. E questo l’abbiamo in alcune partite precedenti.
Secondo chi scrive, questo approccio al mestiere di allenatore – e quindi al gioco del calcio – era ed è l’unico possibile per allenare questo Napoli. I frutti del cambiamento innescato da Spalletti sono sotto gli occhi di tutti, e vanno ben oltre i risultati, il primo posto in classifica, i soli 3 gol subiti in dieci partite di campionato: oggi i giocatori del Napoli sono valorizzati, magari lo sono a turno (contro il Bologna, per esempio, Insigne è tornato protagonista al di là della doppietta dal dischetto) perché le scelte di Spalletti vanno in tante direzioni diverse, ma questo li sta portando anche a sperimentare qualcosa di nuovo. Qualcosa di diverso.
Nel frattempo, il tecnico toscano sta anche lavorando a un’identità più radicata. Per poter attuare un contropressing come quello visto contro il Bologna, occorre avere grande padronanza e grande sicurezza. Certo, magari l’avversario non era di primo livello, e aveva un atteggiamento e delle spaziature che hanno aiutato gli azzurri. Ma ciò non toglie che solo una grande squadra può e sa vincere con questa forza, con questa tranquillità. E oggi le grandi squadre hanno prima di tutto un’identità. Il Napoli, finalmente, sembra aver trovato quella giusta per sé.