Non vi rubano la Panda, vi controllano il Green Pass, entrate in 20 minuti, posto assegnato e seggiolini ribaltabili. Quella maglia che oltraggia la tradizione e senza cori organizzati
Ieri sono tornato allo stadio – già San Paolo ora Maradona – dopo diversi anni di assenza. Sono tornato con uno dei miei figli, il più piccolo di nove anni, ed è stata una esperienza drammatica.
Tanto per cominciare, non hanno rubato alcuna Panda. Che a Napoli, città dove le Fiat sotto i mille di cilindrata sono tracciate con dei dispositivi satellitari sofisticatissimi per un assessment costante del degrado cittadino, è un evento disdicevole. In secondo luogo, hanno osato controllare Green Pass e temperatura corporea a tutti – sottolineo tutti – gli astanti in fila, completamente disinteressati alla profonda umiliazione delle nostre libertà personali che tale gesto violento comporta (volevamo iniziare una sollevazione popolare per sostenere i nostri patrioti di Trieste, ma si sa, a Napoli c’è una rimozione dei più fondamentali temi della moderna giurisprudenza e al mio vano tentativo civilizzatore non v’è stato alcun seguito). Non solo: appuntamento ai cancelli con degli amici alle 17:00, ci siamo ritrovati seduti dopo ben venticinque minuti alle 17:25, addirittura ai nostri posti assegnati e numerati. Francamente quasi mezz’ora per entrare sembra tempo sufficiente a scoraggiare anche i più incalliti tifosi. Mio figlio dopo undici minuti già voleva andare via, disgustato.
Tralascio lo stato dei bagni perché il tema latrinocentrico è parzialmente tramontato, tuttavia parliamo dell’interno: ci sono i seggiolini. Ribaltabili. Che funzionano. Ma io sono capitato con le mie terga su uno di colore grigio. Tonalità inaudita che ha condizionato psicologicamente tutta la mia visione dell’incontro. Anguissa faceva cose egregie a centrocampo e non facevo altro che pensare alla sfumatura che avevo sotto al sedere. Certo non meno dissennata di quella della maglia del Napoli, che giustamente i nobel per l’economia stanno criticando su Internet (la sorgente della verità as we know it), colorata di un tetro nero simbolo del calcio ormai venduto alle false tradizioni importate dagli imperi colonialistici – come qualche coraggioso tecnico in serie A sta finalmente riconoscendo, rompendo un fastidioso muro di omertà. Addirittura vi sono ora due maxi schermi a colori, funzionanti, che rappresentano davvero uno schiaffo alla povertà in tempi in cui stiamo faticosamente uscendo da una pandemia (un monitor monocromatico sui trenta pollici sarebbe andato ugualmente bene).
C’è poi il tema tifo organizzato. Per novanta minuti e più non si è parlato d’altro allo stadio. Mancano i cori, i canti preparati in settimana, un vuoto incolmabile che senti come un macigno nell’anima in ogni istante. Al gol di Osimhen s’è certamente percepito un vago entusiasmo sugli spalti, ma assai disorganizzato. Ciascuno canta in una tonalità diversa. C’è chi parte in Re minore e finisce in Do maggiore. Non ci sono tutti quegli striscioni poetici figli di quell’ermetismo che ti impegna i venti minuti antecedenti il calcio d’inizio per cercare di decrittare il tema trattato. Insomma si è persa la bellezza del calcio di una volta.
Per questa ragione invito tutti a non recarsi allo stadio. Lo sconsiglio da padre, fa male ai nostri giovani. Ne traggono insegnamenti travianti. Oltretutto otto vittorie consecutive non sono un motivo per divertirsi per soli novanta minuti. Chissà in novanta minuti quante Panda hanno rubato.