ilNapolista

È Spalletti ad aver reso il Napoli da bosco e da riviera

Domenica torna Napoli–Verona, sei mesi dopo è un altro Napoli. Spalletti l’ha liberato da centinaia di elucubrazioni mentali. Oggi è una squadra

È Spalletti ad aver reso il Napoli da bosco e da riviera
foto Hermann

«Squadra da bosco e da riviera, che sa giocare anche partite difficili su campi difficili. Che sa adattarsi. I ragazzi hanno ribaltato questa cosa che sanno giocare solo sul velluto».

Queste le parole di Spalletti in conferenza stampa dopo Legia-Napoli.

Sono imprecise. O meglio: lui deve dir così, ma la verità è che non sono stati i ragazzi ad aver ribaltato questa cosa di saper giocare solo sul velluto. È stato lui. Spalletti. È lui che l’ha ribaltata. È lui che ha insegnato a questa squadra a «giocare anche partite difficili su campi difficili».

Ce l’aveva fatto capire subito, ad agosto. Napoli – Venezia. Osimhen s’era fatto buttare fuori a metà del primo tempo, forse anche prima. Insigne aveva sbagliato un rigore all’inizio del secondo. Ed il Napoli poi l’ha portata a casa comunque.

E ha portato a casa quella dopo, a Genova. Dopo qualche incertezza di Meret ed un pareggio inaspettato dei rossoblu.

E ancora: contro la Juventus. Pure ne è venuto a capo, alla fine. Nonostante la cappellata di Manolas che aveva messo Morata da solo davanti a Ospina.

Insomma: i segnali c’erano. C’erano tutti e da subito.

Ora il Napoli ne centra altre due, di vittorie. Importantissime. Una nella bolgia di Salerno e una in quella di Varsavia. Senza i calciatori più determinanti della manovra offensiva. Senza il centravanti e il capitano del Napoli.

Poco male: salgono in cattedra gli altri. E succede che in due partite tutt’altro che facili (checché dicano i risultati) il Napoli segni al Legia 7 gol con 7 calciatori diversi: Insigne, Osimhen e Politano all’andata; Zielinski, Mertens, Lozano e Ounas al ritorno.

L’ennesima prova della profondità di una rosa in cui Spalletti non ha paura di pescare. Con lui non giocano solo in 11.

E non può essere un caso che Lobotka – alla prima apparizione dopo il rientro dall’infortunio – abbia assunto d’improvviso le sembianze di un calciatore, pure discretamente tecnico. È lo stesso che dovette giocare a Granada l’anno scorso e venne fatta passare come una tragedia. Era lento, impacciato. Sembrava perfino appesantito. Oggi entra, gioca la palla con semplicità, gestisce la manovra come gli viene chiesto, viene fuori dalla pressione avversaria in grande stile. Non è certo un fenomeno, ma dei minuti li può fare, e con qualità. Spalletti ha detto che Lobotka ci ha fatto capire «con che persona abbiamo a che fare». Ha detto persona, non calciatore. Per il ragazzo è un grosso attestato di stima. Quando entra in campo, poi questa stima la ricambia. No, non è un caso.

Non può essere un caso che Fabian abbia ricominciato a mettere in mostra un calcio geometrico, essenziale, diretto. Che sia già andato tre volte in gol. Che abbia scoperto d’improvviso che può vincere i contrasti. Che abbia smesso di stare spalle alla porta avversaria. Non è un caso.

Non può essere un caso che Elmas stia dentro le partite, ad incidere. Finora era stato un oggetto misterioso, tutto fumo e niente arrosto. Entrava nelle situazioni disperate e tentava di raffazzonare quel che poteva. Oggi no: è dentro il progetto. Può sbagliare delle partite, ci mancherebbe, è giovanissimo. Ma ora non sembra uno che passa di lì casualmente e viene buttato nella mischia. È dentro un percorso. E non è un caso che le prestazioni siano nettamente migliorate.

Non può essere un caso che Mario Rui vada a dichiarare che da quando c’è Spalletti stanno tutti meglio in campo, che si sentono tutti più coinvolti, che finiscono col correre addirittura meno. Sono parole di un calciatore del Napoli, non di un giornalista. Ed almeno in questo caso, valgono il triplo.

Non può essere un caso che Ounas entri con la testa di ribaltare gli incontri come calzini e non con il semplice intento di strafare, magari per mettersi in mostra, finendo a scartarsi da solo. E che dopo la partita dichiari – lui – che è il nuovo allenatore ad aver cambiato il Napoli.

No. Non è un caso.

È Spalletti che ha lavorato sulla testa del Napoli. L’ha ribaltata.

E che è andato in conferenza – ieri l’altro e poi dopo la partita – a dire che in campo sarebbe andata la migliore formazione possibile. Che può permettersi di non rischiare di peggiorare certi infortuni perché può contare su tanti altri calciatori. Che chi non si sente un titolare, anche se gioca venti minuti, non può stare in questa squadra. E che la partita è stata poi un messaggio a chi è rimasto a casa.

Qualche mese fa in conferenza avremmo assistito al festival delle scuse. Avremmo sentito della conta degli assenti, probabilmente dopo aver visto i presenti girovagare per il campo alla ricerca vana dei pericoli da annusare. 

Domenica c’è Napoli – Verona. S’è parlato di Napoli – Verona per tre mesi, a tratti se ne parla ancora. All’epoca il Napoli non vinceva le partite sporche, no. Perdeva o pareggiava quelle pulite, alcune perfino già vinte, come quella a Reggio Emilia col Sassuolo.

Napoli – Verona a maggio non fu che il manifesto nefasto del «vorrei ma non posso» che è slogan di questa squadra da troppo tempo, non solo lo scorso anno.

Domenica c’è ancora Napoli – Verona, ma sei mesi dopo è un altro Napoli. Spalletti l’ha liberato da centinaia di elucubrazioni mentali. Oggi è squadra «da bosco e da riviera. Che sa giocare anche su campi difficili partite difficili. Che non sa giocare solo sul velluto». E il merito è suo, di Spalletti. Tutto suo.

ilnapolista © riproduzione riservata