Sorrentino sembra continuare ciò che furono per la Città dei loro tempi Peppino Marotta e Vittorio De Sica, mettendosi in sintonia diacronica con la Napoli del tempo del primo Troisi
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“È stata la mano di Dio” è l’ultimo film di Paolo Sorrentino – candidato all’Oscar – ed a primo acchito appare come quello più intimo, perché sembrerebbe raccontare in filigrana anche la sua storia personale.
Napoli, 1984, sta per arrivare Maradona in Città e c’è la famiglia Schisa che vive nel suo ambiente piccolo borghese e familiare in apparente armonia: il padre Saverio (Toni Servillo) è impiegato al Banco di Napoli ed ha una moglie Maria (Teresa Saponangelo) che è allegra e dinamica, mentre il figlio grande Marchino (Marlon Joubert) vorrebbe fare l’attore. Fabietto Schisa (Filippo Scotti) è il figlio più piccolo, un ragazzo liceale che aspetta il suo posto nel mondo, stretto dall’attrazione alla zia Patrizia – una statuaria Luisa Ranieri – ed allo zio Alfredo (Renato Carpentieri), ed alla sua credulona attrazione ai miti della Città, anche quelli calcistici.
Gli Schisa sono un nucleo che vive nella sua famiglia allargata la convivialità di quegli anni con zii, parenti ed affini frequentando d’estate Massa Lubrense, Vico Equense la Costiera amalfitana. Ma nessuna famiglia è felice e si scoprono poi le magagne. Poi l’eventus damni che cambia la storia di Fabietto – anche quella di Sorrentino –, costringe tutti i protagonisti alla scelta e Fabietto – salvato secondo Zio Alfredo dalla mano di Dio – a cui non piace più la realtà, tenta la sua fuga nel sogno di diventare regista, mettendosi in conflitto con Ciro Capano (Antonio Capuano) il regista più d’avant-garde della Napoli di quegli anni, mentre una nobile decaduta gli dà modo di entrare nel futuro con la liberazione sessuale.
In realtà “È stata la mano di Dio” è un film su Napoli e su quella energia misteriosa che Le Figaro non ha compreso: in questo Sorrentino per il suo tempo sembra continuare ciò che furono per la Città dei loro tempi Peppino Marotta e Vittorio De Sica, mettendosi in sintonia diacronica con la Napoli del tempo del primo Troisi. Colmando – in asse cittadino e piccolo-borghese – una lacuna che noi tutti abbiamo sofferto e che da oggi ci viene restituita.