Maradona e lo stigma dell’immortalità. Forse anche Diego, come Borges, avrebbe voluto che di lui ricordassimo solo le magie in campo, ma non è andata così
“Vorrei che venisse dimenticata la mia biografia, e il mio nome, e che venisse ricordato qualche mio racconto o qualche mio verso. Io vorrei sopravvivere nelle mie opere, ma non, diciamo, come soggetto di un lemma in un’enciclopedia” (da “Diffido dell’immortalità: Conversazione con Liliana Heker – Castelvecchi).
Quello in esergo era l’auspicio che Jorge Luis Borges confessava a Liliana Heker nel 1980, una manciata d’anni prima di lasciarci. Se ne sarebbe andato il 14 giugno del 1986, 8 giorni prima del gol del secolo, in una giornata di pausa del Campionato del mondo tra la fine della fase a gironi e l’inizio degli ottavi di finale.
Forse anche Diego, come Borges, avrebbe voluto che di lui ricordassimo solo le magie in campo, ma non è andata così. Lo stigma dell’immortalità, quel simbolo dell’infinito sostituito alla sua data di morte, è stato apposto nell’istante stesso in cui ha esalato l’ultimo respiro.
La querida presencia di Diego
L’anno appena trascorso è stato riempito dalla querida presencia di Maradona. I giornali hanno affastellato pagine e pagine con aneddoti vecchi e nuovi, veri e falsi su di lui. Abbiamo letto (o abbiamo rifiutato di farlo) i particolari, anche miserrimi, sulla morte, la solitudine, il patrimonio, la lotta tra eredi e concessionari dei diritti. Addirittura sul suo cuore, inteso proprio come l’organo che ha smesso di pulsare il 25 novembre del 2020.
Il cinema lo aveva già iniziato a celebrare in vita, ma inevitabilmente la sua morte ha impresso un’accelerazione vertiginosa alla produzione. Film, serie TV e speciali hanno invaso i palinsesti. Quasi nulla si è rivelato all’altezza delle pretese. Paolo Sorrentino lo porterà per la seconda volta agli Oscar: la prima è stata con i ringraziamenti per la sua statuetta, la prossima sarà come ispiratore del suo ultimo film.
El Diego de la gente
Il nome di D10S ora è il nome di due stadi dove Diego ha giocato: quello del Napoli e quello dell’Argentinos Jr., a Buenos Aires. La sua effige campeggia su centinaia e centinaia di muri, in tutto il mondo.
El Diego de la gente. Lui sapeva già di esserlo, ma ora è impresso, acrilico su mattoni, in ogni dove, soprattutto nelle periferie, nei quartieri degradati, vicino a campetti polverulenti come quello in cui disse, ripreso dalle telecamere, che il suo sogno era di giocare il mondiale. Il “salir campeon” che segue è una mezza bugia. Diego sicuramente sognava di vincerlo, il mondiale, ma in quella occasione espresse un desiderio più concreto: voleva semplicemente diventare campione dell’ottava divisione con le Cebollitas, le giovanili dell’Argentinos Juniors. La fine della frase è stata tagliata dal video, ma non dal suo futuro. L’ottava divisione argentina, riservata agli under 15, l’avrebbe effettivamente vinta nel 1974, poco prima di debuttare in Primera division, sempre con la maglia dell’Argentinos. 12 anni prima di realizzare anche il sogno che non ebbe il coraggio di confessare.
Il vero e il falso
Il vero e il falso si sono inseguiti vorticosamente nei 60 anni terreni di Diego.
“Non si allenava mai”, “si allenava sempre e non voleva smettere mai”;
“Napoli tifò per lui nella semifinale del 1990”, “Maradona nei cuori, l’Italia nei cori”;
“ha barato nel 1994”, “Blatter lo ha tradito nel 1994”;
“è suo figlio”, “non è mio figlio”;
“si è lasciato morire”, “lo hanno ammazzato”.
E continuano, il vero e il falso, a confondersi anche oggi che sono, siamo, tutti maradoniani. Ma non è vero. Un anno fa lo ricordava bene Massimiliano Gallo, quanto sia stato odiato in vita, soprattutto in Italia, soprattutto dai media, soprattutto dal Nord Italia. E quanto sia stato a mala pena sopportato, quando non apertamente combattuto e vessato dal potere, da quelli che comandavano nel calcio (e non solo) senza aver avuto mai il coraggio di indossare una maglietta e inseguire un pallone.
Nel mare di ipocrisia che ha sommerso la sua memoria in questi 12 mesi solo poche cose si elevano al di là di ogni dubbio: la gioia che ha regalato, il rispetto che si è guadagnato in campo, l’amore incondizionato dei suoi tifosi. “Un re barbaro, da amare” lo definì Mario Sconcerti in uno straordinario articolo su repubblica del 1990.
Un anno dopo
Diego è stato capace di fermare il covid per un giorno, di essere contemporaneamente sulle prime pagine di tutto il mondo come forse è accaduto ad altre due o tre persone nella storia. Andandosene ha avviato rotative e macchine da presa in ogni continente. Sono nati i maradoniani di professione. Tutto è stato detto da allora e proprio per questo, per celebrarlo oggi, non trovo parole più adatte di quelle che Borges (ancora lui) ha scritto in un tempo in cui Diego non era (ancora) su questa terra, senza conoscerlo eppur descrivendolo alla perfezione. L’immortalità, in fondo, è anche retroattiva.
Libero dalla memoria e dalla speranza,
illimitato, astratto, quasi futuro,
il morto non è un morto: è la morte.Come il Dio dei mistici,
al Quale si devono rifiutare tutti i predicati,
il morto ubiquamente estraneo
non è che la perdizione e assenza del mondo.Tutto gli abbiamo rubato,
non gli abbiamo lasciato né un colore né una sillaba:
qui è il patio che non condividono più i suoi occhi,
là è il marciapiede dove fu in agguato la sua speranza.Perfino ciò che pensiamo
potrebbe stare pensandolo anche lui;
ci siamo spartiti come ladri
il flusso delle notti e dei giorni.Jorge Luis Borges, Rimorso per qualsiasi morte, in Fervore di Buenos Aires, 1923