“Maradona, l’impostore” di Pecchinenda è un libro sul mistero del più straordinario piede sinistro visto da occhi umani all’opera su un campo da calcio
Maradona sarà sempre fra noi
“Il più rappresentativo mito universale degli anni Ottanta”: così, nel suo romanzo Maradona, l’impostore (Rogas edizioni), Gianfranco Pecchinenda definisce Diego Armando Maradona. Un’etichetta forse addirittura riduttiva: infatti la leggenda, il mito appunto di Maradona, travalica senza difficoltà i confini dei decenni – imposti, in fondo, soltanto dall’abitudine umana a contare in ordine decimale – per confermarsi, a un anno dalla morte del suo referente umano, simbolo universale non solo del calcio, ma anche di tanto altro. In Maradona c’è un nodo indistricabile di umano, divino e diabolico, di riscatto e caduta, di universale e locale, che sembra quasi una maionese di alcuni dei più significativi archetipi delle storie che gli esseri umani si raccontano: un mito, appunto.
Ma Pecchinenda, che è intellettuale raffinato – docente di Sociologia della Conoscenza all’Università degli Studi di Napoli “Federico II” – questo lo sa bene: è proprio in quelle storie che risiede uno degli strumenti principali per l’umanità di relazionarsi con sé stessa e con il mondo. Siamo appunto reti di storie, come ebbe a scrivere Wilhelm Schapp.
Quando si ha a che fare con una figura come quella di Maradona, però, queste reti si fanno più aggrovigliate: nell’intreccio tra la figura pubblica, messa davanti a tutto il mondo grazie a tv e giornali, e quella privata, che mantiene aspetti inconoscibili, si crea uno spazio di imponderabilità, di mistero. Ed è proprio di un mistero che tratta Maradona, l’impostore: non tanto quello di un omicidio, come viene fuori dalle prime pagine, ma soprattutto quello dell’identità umana. Non tanto dell’identità del “Pibe de Oro”, quanto di cosa l’identità sia.
Pecchinenda si muove in un territorio che sta tra Javier Cercas e Jorge Luis Borges, tra la psicoterapia e le neuroscienze, in cui l’onirico e il doppelgänger la fanno da padroni e ogni finzione conduce a un’altra finzione, come in un nastro di Möbius di letteraria fattura, o come il “cerchio piatto” che è il tempo secondo il Rust Cohle di True Detective. Identità e realtà, davanti alla critica dell’assurdo, si rivelano costrutti friabili come quello della coscienza umana: e siccome sono fatti della stessa materia, il crollo di anche solo uno di essi trascina inevitabilmente con sé gli altri.
Così è possibile immaginare di scoprire incarnato in chiunque il “personaggio” Diego Armando Maradona, è possibile immaginare di incontrarlo per strada – o perlomeno incontrare qualcuno che cerchi di farsi passare per lui, addirittura si identifichi talmente in lui, incarni il suo Mito, quasi ribaltando la rappresentazione vignettistica della follia in cui il matto cerca di convincere chi gli sta intorno di essere un personaggio famoso, nel romanzo di Gianfranco Pecchinenda sembra essere la realtà a sfarinarsi mettendo in scena il contrasto tra tracce di identità diverse, ma richiamando un unico archetipo.
Perché i miti hanno questo di particolare, mutano e si adeguano al mondo così come questo si presenta a noi.
Nel 1994 il grande neuroscienziato Antonio Damasio diede alle stampe L’errore di Cartesio, un caposaldo, per la scienza occidentale, del faticoso e difficile lavoro di ricucitura tra mente e corpo, che prova a emendare l’errore – appunto – di tener rigidamente separati questi due elementi nella nostra concezione dell’essere umano.
Eppure il mistero dell’identità resta ancora per larga parte a noi impenetrabile, e per questo tuttora ci affascina. Così come il mistero del più straordinario piede sinistro visto da occhi umani all’opera su un campo da calcio: un mito universale.