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Moya: «Mi sono goduto la vita. Lo sport non ti deve mai niente, vinci e perdi ciò che meriti»

L’allenatore di Nadal, ex numero 1, al Mundo: “Ero giovane, mi comportavo da giovane. Ho commesso errori ma allora avevo 20 anni, oggi 45”

Moya: «Mi sono goduto la vita. Lo sport non ti deve mai niente, vinci e perdi ciò che meriti»

“Carlos Moya, il primo numero 1 al mondo del tennis spagnolo e fenomeno sociale in Spagna alla fine del XX secolo”. Così El Mundo introduce una lunga intervista all’allenatore di Rafa Nadal, ex campione, ex sex symbol, ex compagno di Flavia Pennetta, ex sciupafemmine. Uno a cavallo di due ere del tennis: quella del professionismo robotico e quella del Tour godereccio. Lui si definisce “riservato e introverso”. Uno “scudo che ho creato io, davo per scontato di essere visto nel modo sbagliato”.

“Ci preoccupiamo troppo di cose abbastanza insignificanti, specialmente quelli di noi che raggiungono una certa popolarità attraverso la professione”.

Moya ha vinto il Roland Garros nel 1998, la Coppa Davis nel 2004 ed è rimasto stabilmente nella top-10 per quasi un decennio. Prima il tennis non era uno sport molto popolare in Spagna.

Dice di aver peccato di ambizione: “Il mio grande obiettivo era vincere un Grande Slam ed essere il numero 1, ma non vincerne dieci, nemmeno cinque, o essere il migliore per anni. Funzionava così: mi ero prefissato obiettivi molto alti, ma una volta raggiunti, ero rimasto vuoto. L’avevo già fatto, fine. In quell’aspetto ho fallito nella mia carriera, è evidente. Non avevo l’ambizione, né la qualità, di Rafa, Federer e Djokovic. Il talento non basta. Ma anche così, ho avuto a che fare con Sampras, Agassi, Rafter, Ivanisevic, Kuerten, Ríos, Ferrero, Corretja. Penso che avrei dovuto vincere almeno un altro Roland Garros, quello del 99, ma persi contro Agassi. Una delle più grandi bugie che esistono nello sport è che se non approfitti delle opportunità lo sport ti deve qualcosa. È una stronzata totale. O vinci quando devi o non te lo restituiranno mai. Lo sport non ti deve mai niente. Vinci e perdi ciò che meriti.

Moya parla anche della sua aura da bon vivant: “C’è una parte di quella leggenda che è realtà, bisogna essere onesti. Mi piaceva vivere e non venivo colpito da una sconfitta come accade per la maggior parte dei giocatori, è così. Ho sempre cercato di prendere la vita con un certo relax, sminuendo lo sport che praticavo. Il tennis era la mia professione, era tutto per me… ma fino a un certo punto. Soprattutto, non mi sentivo come se mi rendesse speciale. Un chirurgo salva le vite, vale molto di più del mio Roland Garros. Quel modo di intendere il tennis non è molto diffuso tra i professionisti, ma è il mio. Mi sono divertito, ho finito bene la mia carriera e ho potuto poi vivere felice e in pace perché l’ho combinata bene con la mia vita personale, senza ossessionare o trascurare la mia gente. Ho preferito guadagnare di meno e vivere più a lungo, questa era la filosofia che ho cercato di applicare.

Da ritirato “l’unica cosa che ti manca è l’adrenalina della competizione, perché niente te la dà. Niente. Sarai felice, avrai successo in altre cose, assisterai alla nascita dei tuoi figli, che è la cosa più grande… Mille cose meravigliose. Ma quella sensazione del tie break nel quinto set sul campo centrale con il pubblico al completo…uff. Non c’è niente di simile”.

“Quando sei giovane non te ne frega niente ed io ero un giovane che si comportava da giovane. Ora mi guardo indietro e ho fatto cose in cui ho sbagliato, ma non possiamo giudicare le cose del passato con i parametri che abbiamo oggi né posso dire a 45 anni cosa fosse corretto quando avevo 20 anni. Adesso ricordo casini, feste e mille cose che sono irrilevanti”.

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