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Scoop del Napolista: nello sport non puoi sempre vincere

Basta un pari col Verona e sembra crollare il mondo. L’opinione pubblica si comporta allo stesso modo di chi si toglie dal collo la medaglia d’argento

Scoop del Napolista: nello sport non puoi sempre vincere
Napoli 07/11//2021 - campionato di calcio serie A / Napoli-Hellas Verona / foto Insidefoto/Image Sport nella foto: Victor Osimhen

La “fatal Verona” non ha niente a che fare col Verona, né col fato. E nemmeno con l’aderenza perduta alla realtà (e al senso del ridicolo). E’ uno stato dell’anima nostra, preda d’un evidente isteria, quasi metabolica: il pareggio è elaborato come un lutto. Tutto ciò che non è vittoria è sconfitta. A volte anche la vittoria stessa, se non è panciuta, grondante di gol, è sconfitta. Il calcio, di cui Napoli in questo momento è una perversione mediatica, non ammette altro che il percorso netto. Senza distinguo, analisi, ragionamenti: hai pareggiato col Verona, hai fallito. Non è sport – che per definizione è competizione e accettazione della eventuale altrui superiorità – no: è un disturbo ossessivo-compulsivo.

O ti avvii sul percorso netto, o il passo falso diverrà una croce. Registri il risultato, e solo quello. Il contesto, l’avversario, persino l’inevitabilità dell’imprevisto, non sono argomenti spendibili. Vale il tutto, e il niente paga meglio. La celebrazione dell’attimo in reset costante, in auto-smentita patologica.

Il Napoli – va ribadito, ma sta diventando una litania di servizio – è primo in classifica. Ha fatto 32 punti in 12 giornate. Ha vinto dieci partite, e due ne ha pareggiate. Quei due pareggi sono una macchia. L’ambiente (notoriamente perfezionista, sobrio, scandinavo) non se ne fa una ragione. Col Verona peggio: l’1-1 è un oltraggio ad un pudore che pure non sapevamo di possedere, così insistente. E non è solo l’ombrosa rielaborazione dello “sconfittismo” in “sconfittismo senza sconfitta”. Mancano proprio le basi: lo sport.

È uno scoop: nello sport non si vince sempre. Che sia tennis, basket, ciclismo subacqueo o sepak takraw, prima o poi c’è uno che perde. Nel sepak takraw si perde un sacco. La sconfitta e la vittoria sono un elastico, funzionano come la salita e la discesa. Il calcio poi riconosce la pianura, il pareggio, la mezza stagione. Ma quella non è più ammissibile, per cliché ma soprattutto perché siamo degli incapaci: non riusciamo a godercela.

La narrazione supereroistica del calcio moderno è un’aberrazione. Facciamo tanto i fighetti quando stigmatizziamo i giocatori che si strappano la medaglia del secondo posto dal petto, ma quelle sono creature nostre. Li vogliamo egomaniaci e incattiviti. Cani da presa con le sopracciglia ad ali gabbiano. Non supponiamo altro dio all’infuori di Ronaldo, più o meno. O, almeno, il calcio ce lo raccontiamo così: ferocemente yuppie.

Questo giudizio binario – ora che anche la grammatica ha sterzato per il neutro – è contrario alla stessa natura della gara. E nel caso d’un campionato di calcio, trattasi di endurance. Una maratona a scatti. Non riuscire ad andare oltre il tabellino è una forma di ignoranza dolosa. Sconcerti, dopo l’ennesima prestazione mastodontica di Osimhen, ha scritto che “è sempre importante ma non è più una novità, non segna da quattro gare”. Fa niente che Osimhen abbia colpito un palo avvitandosi come un fachiro in mezzo metro quadro. Il palo è male. Brutto palo, cattivo palo. Conta solo il gol. Ha tenuto il reparto da solo? Ha allargato la squadra quando il Napoli saliva? Ha dettato profondità in verticale? E chi se ne frega? Non ha segnato, “non è più una sorpresa”. Che palle sti attaccanti che non segnano tutte le domeniche.

E così va, allargando l’analisi alla squadra, alla stagione. Il Verona, in quanto avversario, non ha dignità. Non importa se abbia o meno giocato una gran partita, con una continuità disarmante. È ontologicamente Verona: piccola, e infame. Va battuta per principio. Fatale de che.

Funzioniamo così, un po’ tutti. Soprattutto chi commenta: dall’elzevirista al barista, figurarsi l’ultrà. Come se nessuno di noi avesse mai praticato l’agonismo, nella vita ancor più che nello sport. Trancianti e supponenti. Eh, no, il pareggio no. Cos’è il pareggio se non un apostrofo trasparente tra la gloria e la catastrofe?

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