A Sette: «Il calcio non può sentirsi al di sopra di tutto. E non può illudersi di poter prescindere da un rapporto diretto con lo spettatore allo stadio»

Sul Corriere della Sera Sette, una bella intervista al direttore tecnico del Milan, Paolo Maldini. Dice che l’addio a San Siro è essenziale per la crescita del club.
«Fa impressione, me ne rendo conto. Anche a me. Ci ha giocato mio padre, ci ho giocato io, ci gioca mio figlio. È stata la mia casa. Se la mettiamo sui ricordi, chi più di me potrebbe sentirsi ferito per un cambio così epocale?».
Continua:
«Se noi vogliamo che Milan e Inter tornino ai piani alti del calcio europeo, scrivendo pagine bellissime come quelle di San Siro, non possiamo che avere uno stadio nuovo. Le alternative non esistono. Questa non è una opinione, è una certezza. Non voglio cancellare un passato meraviglioso. Solo che a me piace guardare avanti. È un po’ l’idea della mia vita».
Si soffre più da figlio di calciatore o da padre di calciatore?
«Da figlio, ho sofferto molto. Sui campi di periferia, e adesso purtroppo credo che potrebbe essere anche peggio di allora. Mio papà veniva a vedere le partite, e io sentivo quel che diceva la gente, sentivo addosso gli sguardi cattivi. Credo che la parabola della mia carriera si sia decisa in quelle occasioni. O mollavo, oppure provavo a essere sempre uno dei migliori. Per far vedere che non ero solo “il figlio di Cesare”. E ogni volta mi caricavo così, immaginando quel che dicevano i genitori dei miei avversari».
Maldini non ha mai scritto una autobiografia, gli viene chiesto perché.
«Me l’hanno proposto molte volte. Ma le autobiografie hanno senso solo se una persona riesce a dire davvero tutto. Secondo me, non è giusto farlo. Sono una persona fedele al codice non scritto dei giocatori. È una forma di rispetto verso tutti i gruppi con i quali ho lavorato dal primo Milan con Franco Baresi all’ultimo del 2009. Non mi piacerebbe raccontare una verità mia. Quando parli di una squadra, non esiste un unico punto di vista».
Racconta cosa ha fatto nei nove anni in cui è rimasto lontano dal calcio.
«Il giorno dopo la mia ultima partita, sono andato a tagliarmi i capelli. Da lunghi a corti, come li porto ora. Volevo essere altro. Sentirmi apprezzato o meno per quello che ero davvero, non perché ero Paolo Maldini, l’ex calciatore. Ho avuto la fortuna di ritirarmi quando i miei figli erano ancora piccoli. Avere del tempo per loro è stato fantastico. Mi sono goduto una vita normale».
Poi il ritorno al Milan, prima con Leonardo, poi da solo. Parla di Gigio Donnarumma, passato proprio al club del suo vecchio amico.
«A volte so di sembrare quasi fatalista. Gianluigi Donnarumma è una bella persona, piena di emozioni. Io credo che in un mondo ideale l’unica vera motivazione di un calciatore dovrebbe essere la passione. Ma se il tuo obiettivo è quello di ottenere un riscatto sociale, e denaro da dare alla tua famiglia, che ha stretto la cinghia per te negli anni della tua infanzia, beh, anche quelle sono motivazioni. Da capire e rispettare».
Aggiunge:
«Per raggiungere certi risultati e una certa statura come giocatore, le motivazioni sportive sono fondamentali. Può succedere che le necessità di un giocatore non si combinino con quelle di una società. C’è chi riesce ad aspettare, e chi invece ha fretta. Non sta a me giudicare certe scelte».
Come sono cambiati i calciatori?
«Prima delle partite, negli spogliatoi c’era un silenzio sacro. Adesso, ovunque, c’è musica a un volume altissimo. Non sono il tipo di persona che dice ai miei tempi era meglio. Era solo diverso. I calciatori si adeguano, come tutti i lavoratori. Ad esempio, i social hanno fatto sì che durante i ritiri all’interno dei gruppi non ci sia più tanta conversazione. Instagram e quant’altro hanno ucciso la bellezza implicita del ritiro: il dialogo, le amicizie che si saldavano. Io appartengo a un’altra generazione».
Il Covid rivoluzionerà il calcio?
«Spesso si parla male dei calciatori di oggi, ma invece sono stati fin troppo bravi nel giocare a buon livello senza spettatori. Un anno in quelle condizioni stava uccidendo non solo il prodotto in sé ma anche le loro anime. Io non ce l’avrei fatta, sono sincero. Quando entravo a San Siro e magari c’erano appena ventimila spettatori per le partite di Coppa Italia, mi sentivo spento. Il calcio non può sentirsi al di sopra di qualsiasi cosa, anche se siamo convinti di stare in una bolla. E non può illudersi di poter prescindere da un rapporto diretto con lo spettatore. Allo stadio. Non alla televisione».