A Sportweek: «Sono in Serie A grazie a Spalletti, è di una curiosità esagerata. Impossibile che mi chiami un grande club. Il calcio vive di pressioni, non approfondisce»

Sportweek intervista l’allenatore dell’Empoli, Aurelio Andreazzoli. A 68 anni, è l’allenatore più anziano della Serie A. Racconta di avere un buon rapporto con tutti, sia calciatori che colleghi, ma, soprattutto, con gli arbitri.
«Credo che il rapporto migliore io ce l’abbia con gli arbitri. Loro rappresentano la parte più screditata del mondo del calcio e noi che gli stiamo vicini in campo, allenatori e calciatori intendo, abbiamo l’obbligo di provare a farli lavorare in un clima più sereno. A Empoli insistiamo molto su questo: per due volte, quando la squadra è stata promossa in A, ai miei tempi e l’anno scorso con Dionisi, la società ha vinto la Coppa Disciplina. Voglio rivincerla quest’anno. Dopo la partita contro il Verona, in cui Di Francesco era stato ammonito per aver trattenuto un avversario per la maglia, sul referto, invece che per gioco scorretto, risultava che fosse stato sanzionato per comportamento irriguardoso nei confronti dell’arbitro. Ho chiesto al nostro segretario di chiamare in Lega perché rettificassero. Potrà pure succedere, ma non credo che un giocatore del mio Empoli possa mai venire espulso per proteste».
Parla del rapporto con i giocatori giovani. Aiuta a restare giovani?
«Aiuta anche quelli di 30 anni, anche se uno della mia età può permettersi di non fare caso alle cazzate che i giocatori dicono nello spogliatoio. Un ambiente come il nostro ti rinnova. Prima dell’allenamento la squadra ha un momento tutto suo, il torello. Io e i miei collaboratori ci mettiamo intorno a loro a sentire le battute che si scambiano, e io ripeto sempre al mio staff: scrivete quello che si dicono, così li intendiamo!! Come fai a non rimanere giovane con ragazzi così?».
Uno della sua età di cosa parla con dei ventenni?
«L’equilibrio è delicato e il confine con l’invadenza sottile, ma ho notato che, quando chiedi della famiglia, ti interessi dei figli, loro gradiscono. Io non lo faccio spessissimo, anche perché dovrei moltiplicare per venticinque il tempo dedicato a uno e finirei per fare il prete e non più l’allenatore, ma i ragazzi si aspettano che tu muova un passo verso di loro. Specie in momenti difficili come quelli che abbiamo vissuto l’anno scorso. Abbiamo avuto tre lutti gravissimi: prima è mancato all’improvviso il papà di Parisi, poi la mamma di Viti, che lottava da anni contro un tumore, infine mio fratello, che era una roccia e in venti giorni se ne è andato. È un gruppo di giocatori molto sensibile. E curioso: Romagnoli studia Filosofia, e mi fa vedere le cose sotto una luce diversa».
Sul mestiere dell’allenatore:
«Devi saper conoscere le persone, in modo da tirare fuori il meglio da loro. Devi condividere, non imporre. Nel momento in cui entri nello spogliatoio hai due minuti per fare colpo, oppure per deludere. I giocatori te ne concedono altri due o tre per ascoltare le tue idee. Una volta in campo, si aspettano che tu sappia metterle in pratica. È un attimo essere scoperti e messi a nudo».
Andreazzoli ha fatto tanta gavetta, fino all’incontro con Luciano Spalletti.
«A un certo punto della carriera ho conosciuto Luciano Spalletti, che mi ha aperto un mondo al quale non so se ci sarei arrivato da solo. Quello della Serie A e di un calcio sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo. Luciano è di una curiosità esagerata. Mi chiamò perché io ero più curioso di lui e mi portò a Roma, dove sono rimasto per dodici anni come collaboratore tecnico dei vari allenatori che si sono dati il cambio in panchina».
Nel 2013 subentrò sulla panchina giallorossa dopo l’esonero di Zeman. Il suo cammino si interruppe quando perse la finale di Coppa Italia contro la Lazio all’Olimpico.
«Ma dire che l’avevo persa io, significherebbe che l’allenatore è più importante dei giocatori, e non è così. In quella squadra c’erano Totti, De Rossi, Balzaretti: la finale la persero loro. Insomma, con Garcia ritorno al mio vecchio ruolo di allenatore in caso di bisogno. A un certo punto mi stancai di non allenare e dissi: basta, torno a casa e smetto».
Invece arrivò la telefonata dell’Empoli. Ma un grande club, dice, non lo chiamerebbe mai.
«Non è possibile che succeda. Però mi lasci dire una cosa: se io assumo una persona a dirigere la mia azienda, guardo l’età o il curriculum e i fatti? Nel calcio si guarda l’anagrafe perché, dicono i presidenti, bisogna programmare. Con me, la programmazione è durata una volta fino al 21 ottobre, un’altra fino al 5 novembre. La prima volta era il compleanno di mio nipote, la seconda festeggiavo gli anni io. Il calcio vive di pressioni, qualche pregiudizio e di poca voglia di approfondire le cose, ma è evidente che un allenatore, soprattutto se a parole apprezzato, ha bisogno di tempo per modellare la materia».