L’imbarazzante discorso dopo la sconfitta con Nadal è quello di un bambino rosicone. Voleva sfidare i tre grandi e ha finito col dire: mamma, nessuno mi vuole bene
Voleva solo essere amato Daniil Medvedev. In tutta la sua sgradevolezza, per imperativo categorico. Perché così sognava da bambino. E non si rompono i sogni d’un bambino, ha rinfacciato alla sala stampa che ancora grondava ammirazione per l’impresa di Rafa Nadal. Un argomento avvilente, consegnato a caldo in forma di lettera aperta, senza possibilità di replica:
“Quando sono entrato nella top-20 e ho iniziato a giocare contro Roger, Novak, Rafa, senza batterli, si è parlato molto della NextGen che avrebbe dovuto fare meglio. E io pensavo: diamogli filo da torcere. Ma penso che queste stesse persone stessero mentendo, perché ogni volta che gioco queste grandi partite contro di loro, non vedo molte persone che vogliono che io vinca. Non sono molto sicuro che quando avrò 30 anni, avrò ancora voglia di giocare a tennis. D’ora in poi giocherò solo per me stesso, per la mia famiglia e per i russi. Se c’è un torneo sul cemento a Mosca prima del Roland-Garros o di Wimbledon, ci andrò anche se mi farà perdere gli altri due. Il bambino ha smesso di sognare. Il bambino giocherà per sé stesso”.
Non se l’è filato nessuno, per vari motivi evidenti a tutti tranne che a lui. Giocava, tanto per cominciare, contro una leggenda deambulante, emblema di resistenza e correttezza, sacrificio e buone maniere, guerra e affabilità. Uno empaticamente e agonisticamente imbattibile. Peraltro lo aveva messo sotto di due set, e tutti sanno che uno spettatore pagante – anche il più asettico e neutrale – tifa perché la partita vada avanti, vuole la rimonta, la tenzone, il combattimento, il sangue. Poche ore prima lo stesso Medvedev aveva affermato, lì in campo, che la gente di Melbourne doveva avere un quoziente d’intelligenza molto basso. Il coraggio non gli manca: l’avesse fatto al Foro Italico avrebbe varcato il Tevere sotto scorta direzione Fiumicino. Durante la finale aveva ribadito il concetto innescando l’arbitro mentre veniva fischiato ad ogni servizio: “Non puoi dirgli solo ‘please’. Non è abbastanza in una finale di Slam. ‘Please’ con gli idioti non funziona”.
Ecco, Medvedev pretendeva di essere amato dagli idioti. E tale rivendicazione l’ha formulata in conferenza stampa facendo la figura del ragazzino piccioso sconfitto in una finale di un torneo Kinder. Essere co-protagonista di un evento sportivo di portata epica, e ridursi a sventolare la scusa del tifo contro è la perfetta definizione di “idiota”.
Manco poi fosse uno nuovo a questa dialettica dello scontro. Medvedev fa simpatia per contrasto, da sempre. E’ brutto, è stilisticamente storto. Per conformazione fisica e metodologia tecnica si presta a mortificazioni varie: ognuno ci vede quel che vuole, e in genere non sono complimenti. E’ alto come un’ala del basket ma è filiforme al limite della malnutrizione. Con la postura incurvata in avanti, i capelli effetto riporto impiegatizio, l’andatura dinoccolata. E’ disordinato, trasandato, snodato, scomposto, sciatto. In pratica è la nemesi di Federer. E caratterialmente lo è di Nadal.
E’ più affine al suo amico Djokovic cui pure ha strappato dal cuore il Grande Slam in una finale americana sommersa da fischi mentre l’altro crollava in un pianto isterico. Uno che la letteratura tennistica raccontava come un cyborg. Non è riuscito a farsi perdonare stropicciando l’impresa a Nadal e ha perso – con la partita – anche l’occasione di alzare le mani, applaudire e non lamentare la scusa ambientale.
“Quando affrontavo le prime volte i Big 3, Roger, Rafa e Novak, sembrava che tutti non vedessero l’ora che qualcuno potesse arrivare a batterli. Oggi mi pare che nessuno voglia più vederli perdere”.
I Big 3 sono un brand tripartito prodotto dal campo, dai risultati. Lo sport funziona così, ed è la sua bellezza. Medvedev sognava da bambino di spodestarli, e di essere cantato come un liberatore da quei poveri tifosi del tennis costretti a sorbirsi quella “dittatura” tecnica. Una perversione, più che un sogno.
Il Telegraph ha giustamente scritto che da Djokovic ha ereditato l’antipatia. E – per ora – solo quella. Djokovic, lui sì, ha passato un’intera carriera a vincere quanto gli altri due senza riuscire a conquistare i cuori di nessuno. Medvedev è un Djokovic con una ventina di Slam di meno. Non ha titoli – morali e materiali – per esigere alcunché.
Viene da un apprendistato di insopportabilità. La sua fama pregressa lo sovrasta. A Wimbledon aveva perso contro Bemelmans e s’era messo a lanciare monetine all’arbitro. Una volta, al Challenge di Savannah, si trovò a protestare contro Donald Young puntando il dito verso un giudice di linea di colore: “Lo so che siete amici voi due…”. Con una sobria allusione al colore della pelle. A New York lo odiano ancora perché nel 2019, in campo contro Feliciano Lopez, se la prese con un raccattapalle strappandogli l’asciugamani: il pubblicò fischiò e lui rispose col dito medio.
Invece di promuovere il suo tennis infame, di farne uno stile anche mediatico, è finito a rendersi ridicolo nella cedevolezza sentimentale: mamma, nessuno mi vuole bene. Quegli idioti non mi amano. Ma pensa.